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mercoledì 21 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. IX.

7

Elena.

Erano ormai tre giorni che stava pronta per quel momento. Sarà stata una settimana che il pensiero che potesse accadere da un momento all’altro si era presentato alla sua mente, ma da tre giorni viveva nell’attesa del Biip prolungato della macchina.
Erano otto anni che assisteva i malati terminali, ottima cura per la gioia di vivere tra l’altro, e il signor Malerba secondo la sua esperienza aveva oltrepassato il limite già da tre giorni.
Il limite. Era la prima volta che dava un nome preciso a quella cosa che aveva visto tante volte, troppe, negli ultimi otto anni. Si può sopportare il dolore, si può sopportare la progressiva paralisi, si può sopportare di non essere più in grado di essere autonomi, neanche per deglutire la propria saliva, e si può sopportare anche un tumore che ti attacca un organo dopo l’altro facendoli morire piano piano, ma esiste un limite, un punto oltre al quale anche la persona più forte cede. Resisti, combatti, ti fai forza, ridi, scherzi, la prendi in ridere, oppure piangi e ti disperi, ma arriva quel punto oltre al quale semplicemente cedi.
E così, mentre la signora Malerba parlava col figlio, lei studiava quella piccola cosa sofferente che gonfiava appena le coperte da ospedale che la coprivano. Vicino a lei c’era il comò e sul comò la foto del matrimonio dei Malerba, una trentina di anni prima. Sarà pesato quaranta chili più di adesso, e sarà stato di quindici centimetri più alto. Il tumore lo aveva rosicchiato ormai del tutto, c’erano solo le ossa. Eppure continuava a vivere, appeso a quelle gocce della flebo che fissava ininterrottamente dalla sera prima.
Riguardò la foto. Erano giovani, ma brutti. Avevano un che di animalesco, delle facce infide. Lei soprattutto, le dava l’idea di un rettile pronto a morderti. E ora era uguale, solo più vecchia.
Il figlio invece era bello, alto e ben fatto. Certo che … mio Dio come si era presentato. Coperto di sangue come un macellaio, e in lacrime. Aveva detto alla madre che aveva aiutato una ragazza che era stata aggredita, l’aveva accompagnata all’ospedale e per quello era arrivato tre ore dopo quanto avesse detto al telefono.
E invece a lei, quando gli aveva portato una maglia per cambiarsi, lo aveva trovato che piangeva su una sedia con la faccia tra le mani, aveva detto che il sangue era soprattutto del cane. Gli avevano investito il cane mentre era all’ospedale con Aisha. Bel nome, come in una canzone molto ritmata che aveva sentito alla radio anni prima.
- Era il suo cane da molto? – gli aveva chiesto senza sapere bene cosa dire.
- Undici anni. L’ho lasciato legato a un palo, non potevo portarlo con me. – pianse di nuovo, ma emise un gemito, da anima dannata avrebbero detto in un romanzo ottocentesco, che la fece davvero sentire male per lui – L’ho abbandonato ed è morto. L’ho tradito. –
Elena lo guardò ancora per qualche secondo, un uomo quasi sulla trentina sporco di sangue, e con gli occhi di chi sta per cedere al dolore. E di là lo aspettava il padre moribondo. Senza quasi rendersene conto gli fece un’altra domanda. – Perché non ha detto del cane a sua madre? –
Lui alzò lo sguardo verso di lei, fece una cosa che assomigliava a un sorriso e disse: - Avrebbe detto che era solo un cane, magari avrebbe fatto un sorriso. L’avrei uccisa con le mie mani. –
Non scherzava. Se lei avesse sminuito la morte del suo amico l’avrebbe uccisa. Non stava piangendo per il padre, ma per il cane. L’unica sua foto in tutta la casa in cui sorridesse, era quella in cui era un diciassettenne con un cucciolo nero focato in braccio. Nelle altre, quelle con mamma e papà, non sorrideva mai. E neanche loro.
- Capisco. – gli disse.
Lui sorrise di nuovo, forse un po’ meglio. Poi disse: - Non può. Non può, mi creda. – e lei uscì lasciandolo da solo a cambiarsi. Tornò dal vecchio pensando di trovarlo morto, ma fissava ancora quella piccola goccia. Quando cadde lo vide gonfiare il petto mentre sulla fronte gli si formavano delle gocce di sudore enormi. Così doveva sudare Gesù nell’orto di Getsemani, pensò, e poi sentì il ragazzo che entrava. Si ritirò nel corridoio per lasciarli soli, ma nel grande specchio li vedeva bene.
Il ragazzo si mise in piedi davanti al letto in cui moriva il padre, ma questi non parve vederlo, stava fissando la flebo. Cadde una goccia e il poveretto gonfiò di nuovo il petto sembrando sforzarsi ancora più di prima.
Il figlio lo vide soffrire così orrendamente e strinse i pugni. Poi disse: - Papà. Dovevi dirmi qualcosa? –
Il vecchio voltò la testa lentamente, mise a fuoco il figlio e parve sorridere. Sollevò una mano ridotta ormai a un grumo di ossette rinsecchite e rattrappite, la usò per togliersi la mascherina, aprì la bocca per parlare e … fece uno sguardo strano, quasi divertito. Allargò gli occhi e la bocca in tre O perfette e Elena fu sicura, sicura per davvero, che si stesse chiedendo cosa avesse voluto dire di tanto importante al figlio. Rimase così per un breve istante, poi riappoggiò la testa al cuscino e i suoi occhi andarono a cercare il soffitto. Non lo trovarono, perché quasi subito si persero senza vedere più nulla.
E allora, dopo tre giorni che lo aspettava, Elena sentì quel biip e corse verso il letto scansando il ragazzo che continuava a fissare il padre. Se c’era davvero stata una cosa che il vecchio avesse voluto dirgli, proprio in quel preciso istante si stava perdendo nei neuroni morenti dell’uomo nel letto.
Elena gli prese il polso, non sentì la minima pulsazione, poi gli poggiò una mano sul petto e non sentì alcun movimento. Sollevò la mano e chiese gli occhi del vecchio. E come prima era stata totalmente sicura di quello che era stato l’ultimo pensiero di quell’uomo, in quel momento seppe che non c’era mai stato nulla che lui avesse voluto dire al figlio. Nulla.

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