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giovedì 22 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. X.

8

Filippo.

Lo svegliò il sole. Le tende erano rimaste aperte, come anche le persiane, e la stanza dava a est. Il sole lo andò a illuminare meno di un’ora dopo l’alba. Sbatté le palpebre tentando di capire dove fosse, mentre i sogni che aveva fatto quella notte svanivano una scena alla volta dalla sua mente. Gli sembrava di ricordare tutto, di sapere tutto, ma già quando si trovò seduto sul letto si rese conto di non sapere bene cosa avesse sognato.
Scese dal letto e si stiracchiò facendo scricchiolare ogni singolo osso che aveva in corpo. Andò alla porta della madre e la vide che dormiva. Meglio, pensò, almeno non piange. Andò in bagno e si fece una lunga doccia, che si portò giù nello scarico tutti i ricordi dei sogni e anche la sensazione di terribile disagio che aveva provato al risveglio. Si lavò con cura le mani facendo andare via tutto il sangue che aveva ancora sotto alle unghie, poi si fece la barba, si pettinò e vedendo la fronte che si stava allargando, stava in realtà diventando un inizio di stempiatura, fu sicuro di doversi andare a tagliare i capelli.
Messosi dei vestiti puliti gironzolò ancora un po’ per casa, aspettando che si facesse un’ora decente, e si trovò di nuovo nella stanza dove era morto il padre. Non sentì nulla, come non sentì niente neanche per il suo cane. Quasi niente, al pensiero di quel povero corpo insanguinato abbandonato sul marciapiede in realtà gli venne quasi il groppo in gola. Ma niente in comune con la sera prima.
Sul comodino del padre vide le poche cose che gli avevano lasciato a portata di mano, e che fino a pochi giorni prima aveva usato. Telefono, agenda, penna, orologio e, ma questo glielo avevano tolto solo da morto, perché sulla mano rinsecchita che aveva usato per togliersi la maschera dell’ossigeno lo aveva visto, l’anello di famiglia.
Lo aveva sempre divertito vedere quell’anello sulle mani dei suoi antenati, fin dal primo, un Filippo Malerba suo omonimo vissuto nell’800 che si era fatto ritrarre in giacca, cravatta e baffoni d’ordinanza da milionario dell’epoca. Suo padre lo aveva indossato per venticinque anni, fin dalla morte del nonno. Lo prese e lo guardò.
Sembrava una vera, sennonché era un po’ più largo e spesso e portava uno stranissimo fregio, come dei graffi ravvicinati, quasi una scritta araba. – Un anello per trovarli … - disse a bassa voce mentre se lo rigirava tra le mani, sembrava davvero della sua misura, - Un anello per domarli … - aggiunse sorridendo, poi fece una faccia crudele e disse: - Il mio tessoro! – e rise di sé stesso. Poi si infilò l’anello e sentì una puntura.
Lo tolse in fretta e lo guardò con cura. Niente. Nessuna scalfittura, nessun graffio, nessuna punta. Era liscio come la pelle di una quindicenne, cazzo, eppure sul suo anulare destro c’era una minuscola goccia di sangue. Si avvicinò il dito alla bocca e succhiò quel puntino rosso. Guardò di nuovo e la ferita era sparita, tanto era piccola. Si rinfilò di nuovo l’anello stando molto attento, ma naturalmente non lo punse. Gli stava proprio bene, cazzo. Sembrava disegnato sul suo dito.
Si guardò allo specchio con l’anello bene in vista, e pensò di nuovo che quei capelli lunghi facevano davvero schifo sulla sua faccia ormai adulta. Mentre si tirava indietro i capelli con le mani per vedere come stava senza la zazzera, gli sembrò di vedere qualcosa. Una cosa così veloce da averla appena avvertita, un qualcosa sull’anello. Lo guardò di nuovo e gli parve che fosse diverso. Il fregio sembrava diverso. Non avrebbe saputo dire in cosa fosse diverso, ma ora gli sembrava più chiaro. Come quando intravedi una scritta e non fai in tempo a leggerla, ma sai se era in italiano o in inglese.
Mentre guardava ancora l’anello, sentì la madre che si alzava. Ora sarebbe cominciata la tragedia greca, ma come farò, ma perché sono ancora viva, quel santo di tuo padre, ma perché Dio ha preso lui, presto me ne andrò anch’io e così via. Dimenticò l’anello, ormai infilato al suo dito, come i sogni della notte prima, e andò ad ascoltare sua madre armandosi di tutta la pazienza che aveva.
Quando finalmente la madre se ne andò in bagno a lavarsi, dopo averlo rintronato per un’ora buona con tutto il repertorio della disperazione vedovile, lui entrò nello studio del padre.
Sulla scrivania c’erano i libri mastri dell’azienda, suo padre era molto all’antica e non aveva mai voluto usare il computer, costringendo i suoi assistenti a stampargli ogni singolo documento per farglielo leggere. Si sedette dove aveva sempre visto il padre, le rare volte che gli aveva permesso di entrare nel sancta sanctorum del suo lavoro, e cominciò a scorrere le paginate di dati. Lo avevano costretto a studiare economia e legge, due al prezzo di uno, e così capiva al volo tutte quelle paginate di numeri e termini astrusi. Negli ultimi tempi, prostrato dalla malattia, suo padre era stato molto disattento e sbadato. Cominciò a saltare da una pagina all’altra notando errori ed ammanchi sospetti, riuscendo quasi ad istinto a ricollegare ogni errore, o furto, a una persona ben precisa, come se avesse curato da sempre quegli affari.
- Cazzo che ladri ‘sti qua. – disse tra sé e sé, e finì in fretta di esaminare i libri segnando su un foglio di carta tutto quello che non andava. Cercò l’agenda del padre e trovò il numero della sua segretaria. – Anna. – disse, e poi fece il numero.
Le parlò per una decina di minuti, scoprendosi ogni secondo più sicuro, mettendosi infine d’accordo con lei per un giro della sede centrale per quel pomeriggio. La salutò con garbo e mise giù la cornetta.
Poi prese l’elenco telefonico e cercò il numero dell’ospedale Pastorino.
- La signorina Aisha Hafez? – chiese all’impiegata, ascoltò per un po’ e rispose: - Sono il signore che l’ha accompagnata ieri sera, i dottori lo sapranno. – ascoltò di nuovo annuendo due o tre volte, e poi chiese: - E in che stanza è la signorina? –
Ascoltò sorridendo la risposta della donna, scrisse un numero sullo stesso foglio di prima, salutò e mise giù. Strappò con cura la parte del foglio con il numero di stanza e se lo mise nel taschino della camicia. Uscì dallo studio e salutò la madre che era al telefono con una persona che stava evidentemente alluvionando con tutto il suo dolore come aveva fatto prima con lui.
Prima di prendere l’auto del padre in garage passò dal barbiere e si fece un bel taglio corto e professionale. Guardandosi nello specchio si piacque. A Kevin non sarebbe piaciuto, ma era morto e quasi non lo ricordava più. Era solo una cosa del passato.

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