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venerdì 16 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. Parte IV.

2

Il branco.

Avevano sedici anni, le orecchie rintronate dalla musica della discoteca, una discreta quantità di alcol, a cui non erano affatto avvezzi, in corpo, e vedevano ancora i lampi residui delle luci stroboscopiche nel buio della strada intorno a loro.
Insomma, erano una sorta di malriuscito anello di congiunzione tra il senso di onnipotenza di un dio e la ferocia priva di pietà di un predatore. Come ho già detto, avevano sedici anni.
Stavano camminando per le strade del loro vecchio quartiere che li avevano visti giocare a pallone e a ga-vettoni mentre tornavano dalla serata in discoteca con i compagni di classe. Parlavano a voce troppo alta con la sensazione di camminare a un paio di dita dal suolo. Parlavano di donne, naturalmente.
- Vi dico che non le aveva. – disse il primo.
- E io ti dico che dovresti cambiare gli occhiali, talpa. – rispose il secondo.
- O smettere di farti le seghe ogni santo giorno. – si intromise il terzo.
- Più volte al giorno. – disse allora il primo, era uno di quegli adolescenti che pensano che menarselo all’infinito sia una prova di maturità.
- E con tutte le pippe che ti fai non sai riconoscere una fica? – gli chiese il secondo.
- Le conosco meglio della mia faccia. – disse il primo.
- Che sembra un culo, in effetti. – commentò il terzo.
- E allora, cazzo, Ste’, ma non l’hai vista che c’aveva le mutande? – era di nuovo il secondo.
- Non le portava. Cazzo, raga’, quella cubista stava proprio sopra a me, mi sculettava in faccia. Quando si muoveva di più e si scopriva, vi dico che non le portava. – e dalla sua espressione sembrava che il reveren-do deretano della cubista in questione fosse ancora lì ad agitarsi a un palmo dalla sua faccia. Estasi.
- Perché io ero distante, Ste’? Credimi, eravamo tutti lì ad annusargliela a quella troia, ma portava delle mutande color carne. Un tanga. – disse il terzo. – Gran culo, comunque. Davvero un gran culo. –
- Concordo. – disse il secondo – Davvero un gran culo, ma portava il tanga rosa. –
- Le ho visto lo spacco! – disse il primo con voce cantilenante e allora gli altri risposero con altre frasi a-mene e altri apprezzamenti sulle forme dell’ignota cubista, passando poi a giudicare le forme, la bellezza, la chiavabilità, per dirla col loro gergo, delle loro compagne di classe, dalla improponibile Berardi alla super chiavabile in excelsis coelis (facevano il classico) Todini, che aveva avuto la bella pensata di andare in disco-teca senza reggiseno e con la minigonna lunga sì e no otto centimetri.
E continuarono così per un bel po’, che dalla fermata dell’autobus alle loro case, erano vicini da sempre, c’erano dieci minuti buoni di salita. E mentre i fumi dell’alcol cominciavano ad evaporare, ma non così i loro effetti eccitanti, questo parlare e riparlare di donne e sesso li stava eccitando molto più del solito, (29-9-2012)e il solito in quanto sedicenni maschi era il fatto di pensare al sesso 61 o 62 volte all’ora.
Camminavano ridendo, sghignazzando anzi, facendo pesanti apprezzamenti che avrebbero fatto cadere dalla sedia le loro madri, i padri no, sarebbero forse rimasti stupiti, ma sbalorditi no di certo, e camminando si davano spintoni e pugni sulle braccia, muovevano le mani nell’aria a mimare le forme di ragazze che avevano visto dal vero o in foto, quando il terzo, appena passato un vicolo pieno di bidoni della spazzatura, si fermò come un computer impallato.
- Che c’hai? Hai finito la carica? –gli chiese il primo che cominciava ad avere una certa voglia di pisciare e non vedeva l’ora di andarsene a casa a svuotare la vescica dalla birra che la stava affogando.
- Ohoo! – gli disse il secondo – C’è qualcuno in casa, Mcfly? –
Il terzo sorrise, un sorriso un po’ ebete e un po’ cattivo. Il sorriso di un truffatore che ha appena visto una vecchietta svanita uscire dalla posta, il sorriso di una iena che ha scorto un piccolo cerbiatto nell’erba alta. Il sorriso di un ragazzo che sta pensando a una cosa molto molto piacevole che non vorrà mai raccontare a casa. – Là dentro. – disse accennando con un movimento del capo al vicolo che aveva appena sorpassato – Cosa non c’è la dentro! –
- Cosa hai visto? – gli chiese il secondo tornando indietro, ma lui gli fece segno di stare zitto col dito da-vanti alla bocca. Il suo sorriso si era allargato ancora e sembrava ora quello di uno squalo bianco dei film.
- Roba buona. Roba sopraffina. – disse sorridendo ancora, poi tornò indietro e sbirciò di nuovo nel vicolo. Gli altri due sentirono il rumore di un bidone della spazzatura che veniva aperto e chiuso. Si girò di nuovo verso di loro e sghignazzò in silenzio. Il primo, quello che sosteneva che la cubista non portasse le mutande, ebbe paura del suo sguardo e del suo sorriso. Sembravano una maschera da mostro. E gli sembrava che portare quella maschera fosse troppo divertente per non essere pericoloso.
- Che figa! – disse il terzo sottovoce ai due amici che lo avevano raggiunto – Ragazzi che figa! Nuda prati-camente. –
- Chi? –
- Una tizia, non so chi sia. Un puttanone da antologia, credetemi. –
E il primo guardò ancora quel sorriso, quegli occhi cattivi, ma l’idea di una ragazza seminuda da sola con loro, da sola con loro di notte in un vicolo, loro in tre e lei da sola … quella faccia faceva paura, certo, ma forse l’aveva messa su anche lui adesso. –
- Zitti, raga’, aspettiamo che esca e … - disse il terzo ghignando come un satiro, gli occhi che sembravano brillare alla luce arancione del lampione.
E il primo si avvicinò pensando che il terzo scherzasse, perché erano tre(30-9-2012) bravi ragazzi, tre di quei ragazzi che se vedono una vecchietta sull’autobus le lasciano il posto, e così una donna incinta, tre di quei bravi figlioli che raccolgono la moneta caduta a un tizio e lo chiamano per ridargliela, tre di quegli ot-timi ragazzi che non si apposterebbero mai allo sbocco di un vicolo per aggredire una ragazza. Lui li seguì perché sapeva che non lo avrebbero fatto, non c’era neanche bisogno che lo dicesse. Si sarebbero fermati da soli e non voleva fare la figura dello scemo che non capisce lo scherzo, non voleva passare per quello che li aveva davvero presi per animali.
E poi, sì, è vero, voleva vederla ‘sta tizia, voleva sapere cosa si provava a tendere un agguato a una donna e a vederla sobbalzare, a essere crudelmente sinceri lo eccitava l’idea di essere lì ad aspettarla quando lei ne era totalmente ignara, lo inebriava totalmente la consapevolezza di poterlo fare, (1-10-2012)l’idea che la vita di questa donna, da quella sera in poi, sarebbe dipesa da loro. Non le avrebbero fatto niente, questo no, ma sarebbe stato perché loro lo avevano deciso.
E le stesse cose all’incirca le stava pensando anche il secondo, circa con le stesse parole, ma aveva anche voglia di vederla ‘sta tizia seminuda, e aveva voglia di toccarle le tettine, di strizzargliele forte, e nei panta-loni aveva un’erezione non indifferente, perché anche se non l’avessero toccata, loro tre non l’avrebbero mai fatto, no, ma pensare di farlo era la cosa più eccitante che avesse mai provato.
E poi lei uscì, camminando veloce sulle sue infradito, con indosso solo degli shorts minuscoli e una canot-tiera vecchia e sformata che mostrava molto più di quanto riuscisse a nascondere. E il fatto che non li avesse visti, il fatto che avesse fretta, il lieve odore di sudore che si sentiva nell’aria che aveva attraversato, li colpirono con una forza inaspettata. E fu il terzo a muoversi dietro di lei, mentre una parte della sua mente, una parte lontana e difficile da ascoltare come un’eco, gli diceva che loro lo avrebbero fermato.
E il secondo lo seguì con l’odore di quella pelle liscia che gli solleticava le narici, fissando l’ancheggiare in-volontario di quei fianchi così desiderabili e vicini, certo che il primo li avrebbe fermati.
E il primo li seguì, in silenzio come loro, la mente piena di pensieri di sesso, pensando che fosse uno scherzo, che loro si sarebbero girati ridendo e che sarebbero tornati a casa scherzando su quello che era successo.
E poi … in realtà non ricordarono mai troppo bene cosa fosse successo poi, se non nei sogni. Per tutta la vita avrebbero avuto incubi su quella serata, sempre più orribili col passare degli anni, svegliandosi nel cuore della notte urlando, e dimenticando subito cosa avevano sognato, ma non la paura che avevano provato facendolo. La paura per i mostri che abitavano il sogno. E i mostri erano loro.
E quando anche fossero riusciti a ricordare qualcosa di quel sogno, nelle ore più buie della notte, quando ti rigiri nel letto tra le lenzuola sudate implorando il sonno di tornare da te, quel qualcosa sarebbe stato un branco di lupi, un piccolo branco di lupi feroci che assalgono una cerbiatta, tre belve sanguinarie che aggrediscono una povera cerbiatta indifesa e la sbranano sghignazzando, divertendosi a lasciarla fuggire per poi riacchiapparla e morderla di nuovo.
E, ma questo nessuno di loro lo avrebbe mai ricordato, una voce nelle loro menti a suggerire cosa fare, una voce acuta e melliflua, come l’ululato del capobranco, la cosa più orrenda del loro sogno.

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