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venerdì 23 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XI.

II

Primo giorno di scuola

Carla si alzò dal letto con gli occhi estremamente cisposi. Arrancò sui piedi indecisi di un morto di sonno fino al bagno, accese la luce maledicendo chi l’aveva inventata e si risciacquò la faccia. Quel fresco la svegliò, almeno un po’, e poté guardarsi allo specchio. Sulla guancia c’erano i segni delle pieghe del lenzuolo, vedeva persino l’impronta del bottone automatico della federa.
I capelli, che portava tagliati in uno sbarazzino caschetto, erano adesso sparati per aria come dopo l’esplosione di una bomba a mano. Lo sguardo era senza dubbio quello di una fattona di canne varie ed eventuali, e così sarebbe rimasto fino a dopo la doccia. Strinse gli occhi e si guardò male. – Non mi piaci. – si disse, poi atteggiò la faccia in un sorriso e disse: - Così mi piaci. Ora hai la faccia da maestrina dalla penna rossa. – scosse il capo, fece un ghigno e poi si fece da sola una pernacchia. Non avendo mai imparato a farle per bene, sputacchiò un bel po’ di saliva sullo specchio e, tentando di asciugarlo con la mano, lo riempì di aloni.
- Perfetto. – disse. Si sfilò la maglia del pigiama e slacciò il cordoncino che reggeva i pantaloni, si sfilò le mutandine rosa e le fece cadere a terra, si sedette sul water e pisciò mentre si controllava lo sporco sotto alle unghie. – Ma come cazzo fa? – disse a bassa voce ripensando alle mani di sua madre, sempre perfette e linde come quelle di un chirurgo. Le sue unghie, anche dopo il bagno e dopo averle tagliate, avevano sempre un po’ di sporco. – Cavolo! – disse alzandosi e asciugandosi con un paio di fogli di carta igienica.
Allungò una mano e aprì la doccia e, mentre l’acqua si scaldava, si esaminò la faccia alla ricerca di punti neri. Allargò bene la bocca, si fece una linguaccia, rise, si grattò il collo dicendo: - Cane da canile! – e poi infilò la mano sotto l’acqua. Andava bene, che fortuna.
Entrò nella doccia e si fece una doccetta veloce, lavandosi i capelli e insaponandosi sbadatamente. Cinque minuti dopo era già fuori ad asciugarsi con l’asciugamano grande, quello che mamma le aveva regalato quando si era trasferita lì per insegnare. Doveva lavarlo, cazzo, cominciava a puzzare di animaletto.
Camminando a piedi nudi, si era dimenticata le ciabatte, tornò in camera e andò a guardare attraverso le persiane chiuse. Palazzi grigiastri e tristi, negozi dalle vetrine pretenziose, utilitarie e autobus che passavano. e qua e là, sul marciapiede, panchine di cemento e alberetti striminziti. – Bel panorama del cavolo! – disse cominciando a vestirsi.
In mutandine e reggiseno posò sul letto due o tre possibili mise. Le guardava con l’occhio critico, chiedendosi quale fosse la migliore per presentarsi alla scuola. Maestra di terza elementare. Si specchiò tenendo ogni vestito davanti a sé, come quando da bambina ritagliava i vestiti da attaccare sulle sagomine di donne. Ogni volta sorrideva e diceva: - Salve! Sono Carla Damiani! – e piegava da un lato la testa. Per quanto tentasse di non farlo, quando diceva salve non poteva impedirselo. – Cazzo! Sembro una ritardata! –
Scelse la camicetta bianca con fiorellini blu, la gonna nera al ginocchio e la giacchettina di cotone blu. Si infilò le scarpe con cinque centimetri di tacco, nere ma serie, mezze da suora e mezze da vamp, e si guardò di nuovo nello specchio dell’armadio.
- Salve! – ed ecco di nuovo la testa che si abbassava, cazzo! – Sono Carla Damiani, la nuova maestra. –
Andò in cucina a farsi un caffè, erano almeno dieci anni che la sua colazione era sempre e solo un caffè con una goccia di latte, e vide il bigliettino appeso al frigo.
- Cazzo! – disse ricordandosi della vicina che era andata in Perù. – Le piante della vicina! – disse trangugiando il caffè, che le era venuto da schifo, tra l’altro, poi prese le chiavi che la vicina, Samantha con la H, le aveva dato la sera prima e uscì per andare nell’appartamento a fianco. Avrebbe finito di prepararsi dopo, c’era tempo.
Aprì la porta, tre mandate per tre serrature, e che cazzo c’hai qui dentro, Fort Knox, ed entrò nell’appartamento buio. Cercò a tentoni l’interruttore e accese la luce. – Bell’arredamento. Adatto a una Samantha con la H. – disse, poi andò alla cucina. L’innaffiatoio verde da sei litri era già nel lavandino, brava Samantha.
Lo riempì e poi cominciò a girare per il salotto innaffiando le piante d’appartamento. Kenzie, Pothos, Dracene, - Jurassic Park. – disse mentre cominciava a fischiettare la nota colonna sonora, poi andò alla finestra e la aprì per andare sul poggiolo. Quando aprì le persiane rimase senza fiato.
L’appartamento di Samantha dava sull’altro lato del palazzo, costruzione anonima che faceva parte di una muraglia di altrettanto anonime costruzioni di tutte le sfumature del grigio, tutte affacciate sull’anonima via cittadina che lei aveva appena visto. Ma qua, cazzo di Buddha, era tutta un’altra cosa. Davanti a sé Carla vide una collina alta forse un centinaio di metri, totalmente nascosta al resto del quartiere dai palazzi in cui si trovava, tutta ricoperta da piccole casette a due o tre piani, fino alla cima dove si trovava una dimora principesca, o almeno così le appariva da lì. E vedeva giardini, alberi, foglie tendenti al rosso per l’autunno appena cominciato. – Cazzo, ma che posto è? – disse bagnando le piante nei vasi, ammirando quel paesaggio bucolico totalmente inaspettato in mezzo a quel quartiere operaio e cittadino in cui era andata ad abitare.
Là, in mezzo a quel paesotto incantato, c’era la scuola in cui sarebbe andata a insegnare. Là in mezzo c’era il suo futuro.

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