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lunedì 19 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. VII.

5

Il guidatore.

Naturalmente aveva preso la strada sul lungo torrente, era diretta e quasi totalmente priva di traffico. Di giorno si doveva vedere il greto del torrente, l’acqua quasi mai, se non pioveva forte, e arbusti e cespugli vari tra le pietre, e forse graffiti privi di senso e di valore artistico sui muri di cemento degli argini. Ma a quell’ora, col buio, sembrava quasi di andare in una galleria, sparati in un tubo buio rischiarato solo dai lampioni e dai fari dell’auto.
Stava tornando a casa, lì ci sarebbero stati la moglie e i figli. Due chiacchiere con i figli, come andata a scuola, cosa hai imparato, cosa ti ha detto poi quel tuo amico, l’hai fatta ginnastica o ti faceva male la gamba? E due chiacchiere con Elsa, come è andata al lavoro, ma hai visto quel politico cosa non si è rubato, hai cambiato pettinatura, cosa devo comprare dall’edicola, anche la settimana enigmistica, no, solo il giornale.
E poi, cosa c’è per cena, buono, e abbiamo del dolce, no, ne hai un po’ da parte solo per me, ce l’ho anche io qualcosa per te, sì ma in silenzio che mi sa che i bambini ci hanno sentiti l’altra volta, e potremmo fare quella cosa che , sai, è un po’ che non la facciamo, eh sì caro, mi sa tanto che la faremo.
E infine lavarsi i denti, mettere la sveglia, dormire. E domani, di nuovo al lavoro.
E mentre pensava alla sua vita passando in rassegna una giornata normale con le sue normalissime cose, mise la freccia a sinistra. Svoltò e si infilò nella strada tra i palazzi. Fischiettava un motivetto che non ricordava bene, qualcosa di un film di azione, e si vedeva passare in testa delle immagini, roba tipo Steve McQueen che guidava in città sgommando tra i passanti, e quel film del tizio che trasportava roba per la mala, mica male la cinesina di quel film, se la sarebbe ripassata ben volentieri, e intanto svoltava ancora a sinistra, su per una stradina tutta curve che sembrava uscita dalla campagna per andare a incunearsi in mezzo alla città
Aggredì la strada a velocità molto alta, sbandando un po’ alla seconda curva a sinistra, e per poco non picchiò nell’ambulanza che scendeva. Aveva le sirene, cazzo, e non l’aveva sentita. Li lasciò passare e intravide dentro , un ragazzo coi capelli lunghi, chino su una barella che lui non poteva vedere. Avevano fretta, molta fretta, qualcuno si era fatto davvero male. E non avrebbe più potuto correre in auto, si sorprese a pensare, avrebbe avuto una vita noiosa. Ma che diavolo di pensiero ho fatto? Pensò, e che ci faccio qua su? Era tardi, sarebbe arrivato con la pasta già in tavola, Elsa si sarebbe incazzata, niente dolce poi, allungò la mano per mettere la freccia, avrebbe dovuto fare un’inversione a U, la mise, guardò alle sue spalle, mise la prima e … ricominciò a salire. Boh! Ma perché cavolo si era rimesso a salire, che era tardi. Ricominciò a fischiettare quel motivetto, si immaginò di portare i guanti di pelle come quel tizio calvo nel film, quello della cinesina nella borsa. Sorrise a questo pensiero insulso da quattordicenne, poco ci mancava che si mettesse a fare Wroom-wroom con la bocca. Accelerava a ogni curva, un paio di volte riuscì anche a fare stridere le gomme, rise come un bimbo sentendo quel rumore, svolta a destra, a sinistra, di nuovo a destra, e …
- Cos’era? – disse dopo la frenata. Stava tremando dal terrore, non riusciva neanche a tenere il volante. Dopo un paio di tentativi riuscì a far scattare il meccanismo della cintura. Respirò a fondo vedendo la macchia di sangue sul parabrezza. E se non fosse stato un animale, e se avesse messo sotto un bambino. Aprì la portiera rimanendo per qualche istante con la maniglia ben stretta in mano. Nessuna luce si stava accendendo, una paese di morti. Scendendo dall’auto fu sicuro che avrebbe visto un bambino morto, un bambino investito da lui, un bambino come Andrea. Pensò che le gambe gli avrebbero ceduto e si appoggiò all’auto, poi si fece forza e camminò verso la discesa. Lo vide subito. Un cane nero.
Più sicuro sulle gambe fece i pochi metri che li dividevano a passo quasi veloce e sicuro. Non era nero, era nero focato. Respirava ancora, e perdeva sangue dal naso e dalla bocca. Gli si era spezzato un canino, e le costole sembravano incavate in un punto. Allungò una mano per accarezzarlo e il cane guaì guardandolo. – Che occhi dolci che hai, piccolo. – gli disse mentre il cane tentava di alzare la testa per leccargli la mano. Le gambe di dietro sembravano totalmente abbandonate, già le zampe di un morto. Si stava pisciando addosso, come un sacco che perde.
- Mi dispiace piccolo, tanto. – gli disse sfiorandogli con le nocche il naso, il cane lo guardò, guaì di nuovo e tirò fuori la lingua riuscendo quasi a leccarlo. Aveva lo sguardo intelligente, sembrava che sapesse che stava morendo. Guaì un’ultima volta e poi i suoi occhi si persero, da un momento all’altro sembrarono diventare opachi. Il petto non andava più su e giù, era un cane morto.
Alla pena si sostituì il ribrezzo, quel cane stava già andando a male, pensò rabbrividendo, le mosche si erano già messe in moto per raggiungerlo. Morto. Lo aveva ucciso lui facendo lo scemo. Morto.
Si guardò intorno pensando che tutti lo stessero guardando, ma tutte le luci erano spente. Eppure avevano fatto un bel botto, si alzò e guardò le case intorno a lui. Un paese di morti, pensò di nuovo, ricordando con terrore un romanzo che aveva letto da adolescente. Un paese invaso dai vampiri, e la gente ci passava di giorno in macchina e vedeva tutto chiuso, tutto sbarrato. Che mortorio pensavano e andavano via in fretta.
Anche lui se ne sarebbe andato in tutta fretta, ma quel povero cane non meritava di stare in mezzo alla strada, cazzo, no. si fece forza e infilò le man sotto a quel corpo che gli si abbandonò flaccidamente addosso quando si alzò. Lo spostò di un paio di metri, sul marciapiede. Lo appoggiò e gli chiuse gli occhi. – Scusa. – gli disse, poi tornò all’auto. L’ammaccatura non era un granché, prese da vicino al sedile la bottiglietta d’acqua che teneva sempre a portata di mano e la versò sul sangue. Con il fazzoletto venne subito pulito. No, l’ammaccatura non era un granché. Risalì in auto e si accorse che mani e gambe non gli tremavano quasi più. Fece l’inversione a U che aveva pensato di fare prima, guardò un’ultima volta quella povera cosa abbandonata sul marciapiede, le case con le finestre come occhi neri, e ripartì per la discesa, stando ben attento a non accelerare troppo, ma anche a non rimanere per troppo tempo lì.
Tornò sula strada principale, e poi sul lungo torrente. Ancora dieci minuti e sarebbe stato a casa. I soliti discorsi, la solita cena. Un abbraccio ai figli e poi, a essere fortunato il dolce notturno con Elsa. Si riavviò il ciuffo sulla fronte, il sudore gelato di prima si era riasciugato, accelerò fino quasi al limite e si allontanò per sempre dal luogo del delitto. Quando parcheggiò sotto casa faceva davvero fatica a ricordare il perché del suo ritardo. E la mattina dopo, sotto alla doccia, non sapeva più di avere ucciso il piccolo Kevin.

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