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martedì 27 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XV.

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Amalia

- Non so se te, così giovane come sei, te ne sei già accorta, ma la memoria è una strana bestia. Tutto quello che ti sembrava più importante, gli amici, lo studio, i professori odiosi, i ragazzi che ti piacevano, tutto … si perde, come una persona che si allontana nella nebbia, come un tuo amico che ti parla dall’altro lato della strada nel pieno del traffico. Ti sembra di ricordare qualcosa, ma si confonde tutto. È come un albero, se lo guardi da vicino lo vedi che è unico, ma se ti allontani, c’è poco da dire, non vedi più quell’albero ma il bosco.
È così anche per la nostra infanzia, non me li ricordo neanche più i nomi delle mie compagne di classe che erano lì con me, anche se li ho letti e riletti, e se a volte li ricordo è perché li ho visti sulla targa che hanno messo là dove è esplosa la bomba. Eppure erano le mie amiche più care, quelle a cui raccontavo tutto di me, quelle di cui mi fidavo per davvero.
E così quel giorno, che allora fu all’inizio solo uno dei tanti giorni della mia vita, si staglia evidente e iperrealistico in quel mare oscuro di ricordi che ha preso il posto della mia giovinezza.
Era una gita come tante altre, sai, una di quelle che dopo mezzora in classe si esce con gli zainetti sulle spalle e si cammina in fila per due dietro alla professoressa chiacchierando con quelle che hai vicino, passando per le strade della città prendendo in giro quel tizio per i capelli lunghi, quell’altra perché è grassa e quella ragazza perché è vestita da scema. E l’ultima cosa che vorresti fare è entrare in una chiesa fondata qualcosa come mille e più anni fa e sentire la prof che ti racconta di imperatori, condottieri e pittori del cavolo che sono morti da secoli.
E così, forse non sai quanto è strano, mi sorprendo a ricordare le parole che abbiamo detto in quel tragitto, che non contava nulla allora, come cose importanti, perché dopo è successo quello che è successo, quando invece vorrei ricordare altri momenti passati con quelle ragazze … ma non ci riesco. E continuo a ricordare quei momenti stupendomi di quanto poco mi interessasse di quella visita di studio che invece fu così disastrosa.
Comunque salimmo su per la strada che hai fatto te stamattina per arrivare a scuola, superando la scuola, che io avevo frequentato fino a all’anno prima, e continuammo a salire sotto a quel bel sole di aprile arrivando per le dieci davanti a quell’edificio pieno di guglie e col portale fittamente scolpito con figure assurde e orrende che popolarono i miei incubi per tutti i mesi successivi, mentre guarivo con incredibile lentezza dalle ustioni.
Eravamo 23 in classe, maschi e femmine, e alcuni stavano con me fin dalla prima elementare, e con noi c’erano due professori.
Il professor Giunti, di matematica, un ridicolo ometto che per quel che mi ricordo pesava meno della metà dei miei compagni e zoppicava per una ferita dei tempi della guerra, diceva lui, e che comunque stava lì solo per arrivare alla pensione, e la professoressa Amantini. Era un nome strano, te lo ricordavi facilmente, ma lei era una donnina semplice e minuta, con quei capelli a muccio e gli occhiali, allora le avrei dato qualcosa come cinquantacinque anni, ma ho scoperto dopo che ne aveva trentaquattro … era una cara donna, sai, gentile ma inflessibile, ti interrogava e voleva che sapessi tutto quello che ti aveva spiegato. Una donna infelice, senza alcun dubbio, e la vidi davvero sorridere solo in due occasioni. Quando ci portò al museo della cattedrale e quel giorno lì. Lei ci spiegava i poeti e Dante, e bene, credimi, ma amava l’archeologia e l’arte. C’erano dei bei quadri lì, sai, uno o due si diceva che fossero di Caravaggio, storie bibliche di leviatani e giudizi universali, ma anche loro … PUFF! Un attimo e sono volati via per sempre.
Comunque siamo arrivati davanti a quel portale enorme e bellissimo, e c’era il sole caldo che ti ho detto, e siamo entrati tra quei battenti di legno scuro e dentro c’era buio, e freddo, quasi, e la prof Amantini camminava davanti a noi …

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