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sabato 17 novembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. V.

3

Filippo

Scese dall’autobus con una certa difficoltà, dovendo spostare il suo grosso zaino e dovendo tenere allo stesso tempo al guinzaglio Kevin. Sarà stata la quarta volta che portava il guinzaglio in vita sua, povero ca-ne, e non è che fosse mai sembrato molto portato per farlo.
- E vieni giù! Cazzo! – gli disse strattonandolo e, quando il cane fu a terra e l’autobus fu ripartito, si guardò finalmente intorno. Casa. Quel posto dove quando ci arrivi, non puoi fare a meno di volere scappare. Alzò lo sguardo verso sud est, là in alto a un centinaio di metri di altezza. La collina c’era ancora, e anche la sua casa. La casa sulla collina dove era cresciuto, la casa che era stata costruita sui resti della chiesa della Pigna, la chiesa che un tizio aveva fatto saltare in aria pochi anni prima della sua nascita.
La casa dove suo padre stava morendo proprio in quel momento.
- Vieni, bestia. – disse al cane dopo avergli tolto il guinzaglio, poi si aggiustò lo zaino sulle spalle e comin-ciò a salire. C’erano una settantina di metri di dislivello, su un paio di chilometri di strada. Un camion della spazzatura svoltò dalla curva davanti a lui e se ne andò sferragliando verso la periferia a nord. Se nulla era cambiato nei dieci anni della sua assenza, e gli sembrava che nulla lo avesse fatto, quel camion era passato davanti a casa sua una ventina di minuti prima. Dovevano esserci i pannoloni di suo padre morente, in quel camion. – Cazzo! – disse sottovoce, poi si girò e vide che il suo cane lungo e ossuto lo stava fissando.
- Niente, Kevin, niente. – e gli sorrise. Il povero cane rispose solo con un breve e furtivo scodinzolio. Non aveva mai amato i centri abitati, e si era sempre comportato come un deficiente quando erano passati in mezzo alle città, ma stasera sembrava davvero di pessimo umore.
Era come se con quella sua espressione seria e quello scodinzolio svogliato e brevissimo gli avessero voluto dire che lì c’era qualcosa di sbagliato, che quel posto era sbagliato, e che loro due avrebbero dovuto fare solamente una cosa: scappare a gambe levate senza guardarsi indietro una sola volta. – Lo so, Kevin, lo so anche meglio di te. – gli disse stupendosi dello sguardo pieno di comprensione del cane, come se davvero in quella piccola testa più simile a un sellino di bicicletta che a al contenitore di un cervello pensante, fossero passati quei pensieri. – Lo so meglio di te. – gli ripeté continuando a salire verso casa sua, verso suo padre che aveva implorato i aprenti di riportargli lì suo figlio perché doveva dirgli qualcosa, e in realtà verso la parte restante della sua vita.
Vita che sarebbe cominciata meno di un minuto dopo quelle parole che aveva detto al suo cane, quando passando davanti a un vicolo, quello dove da bambino andava a tirare i petardi, avrebbe sentito dei tonfi e dei gemiti strozzati arrivare da un bidone della spazzatura. Camminava a passo lento, guardan-dosi intorno mentre tentava di far combaciare con quello che vedeva i suoi ricordi. Aveva ragione Fellini, pensò, quando volendo ricreare la Rimini della usa infanzia la ricostruì tutta a Cinecittà. Nei suoi ricordi di bambino e ragazzo le strade erano più larghe, le case più alte e belle. Ora gli sembrava di passare in uno stretto sentiero infilato a forza tra casette a due piani, con curve così strette da non avere i marciapiedi proprio dove sarebbero serviti di più.
- Vieni mostro. – disse al cane che contrariamente al solito stava indietro e sembrava non avere alcuna voglia di camminare. – Ma si può sapere che cacchio c’hai stasera? – e gli indicò con un cenno del braccio di andare avanti, cosa che il cane fece guardandolo di sbieco e tenendo la coda tra le zampe.
- Certe volte sei proprio incomprensibile … - stava dicendo al cane, quando sentì i gemiti cui avevamo appena accennato. Si fermò a guardare il vicolo alla sua destra, quello sotto alle finestre dei Rossi, gente davvero odiosa, e sentì di nuovo un verso che sembrava il lamento di un gatto ferito.
- Micio? – disse entrando nel vicolo che rispetto alla strada era molto buio – Micio, dove sei? – e di nuovo sentì quel gemito. Ora però gli sembrò di più un pianto. E ci fu anche un altro rumore. Qualcosa si muoveva nel bidone, qualcosa di grosso, molto più di un gatto.
- Ma chi cazzo ha buttato un cane nella spazzatura! – disse correndo mentre gettava a terra lo zaino. Aprì il bidone e guardò dentro. – O cazzo! – urlò – O Madonna santa! – e si arrampicò sul bidone che si inclinò fino quasi a cadere, ma poi tornò a posto. Saltò dentro venendo investito dalla puzza, puoi lavarlo finché vuoi un bidone, ente comunale dei rifiuti, ma sempre di quello saprà, e si accucciò vicino alla donna che giaceva in posizione fetale sul fondo, immersa in due dita di marciume che aveva resistito al lavaggio mec-canico.
- Signorina! – le disse muovendole la testa per guardarla – signorina! Mi sente? –
La donna aprì un occhio, l’altro, se c’era ancora, era affondato in un orrendo gonfiore rossastro, aprì la bocca tumefatta per parlare, mostrando almeno un paio di spazi vuoti tra i denti rossi di sangue, gorgogliò qualche parola tentando di metterlo a fuoco e poi, tremando come un cucciolo allontanato dalla madre in una notte d’inverno, si raggomitolò stringendo nella sua mano sporca di sangue quella di Filippo.
- Se la prendo in braccio, posso tirarla fuori dal bidone? –
- Gahhah! – disse lei e non aggiunse altro. In quell’occhio c’era più terrore di quanto Filippo avesse mai immaginato potesse esisterne al mondo.
- Ha qualcosa di rotto? Se la sollevo le faccio male? – e davvero gli sembrò farle più male di quanto gliene avessero appena fatto. Sui seni e sulle braccia vedeva segni di morsi. Ottime dentature umane, di quelle che sono costate molto in cure dentistiche. Dal sangue che le aveva intravisto tra le gambe, e aveva davvero cercato di non guardare, quegli animali dovevano essersi dati molto da fare anche lì.
- Allora, ci proviamo? – le disse sorridendo mentre le passava le braccia sotto alle spalle e alle gambe. Fe-ce fatica a staccare la sua mano che gli stringeva forte le dita.
- Ahh! – disse lei annuendo e Filippo la sollevò. I suoi piedi scivolarono un po’ in quel liquame orrendo, ma riuscì ad alzarsi. E ora come cacchio la porto fuori? Pensò tra sé e sé, poi tentò di scavalcare il bordo con la gambe sinistra e, misericordiosamente, riuscì a scendere dal bidone senza cadere in terra e, ancora più importante, senza fare cadere lei. La posò sull’asfalto e si tolse la giacca di jeans, l’aiutò a sollevarsi e con un po’ di fatica gliela fece infilare. Lei si raggomitolò fino a diventare minuscola, le gambe strette tra le braccia, mentre piangeva a dirotto.
Appena poteva riafferrava la mano di Filippo, senza lasciargliela allontanare, mentre il buon Kevin stava a un paio di metri di distanza a osservarli in silenzio. Aveva sempre lo sguardo preoccupato, e seguiva con i movimenti degli occhi ogni mossa di Filippo.
- Stia tranquilla, signorina, stia tranquilla. – le disse stringendola a sé mentre si guardava intorno per ve-dere se il rumore che aveva fatto urlando e tirandola fuori dal bidone avesse svegliato qualcuno, ma le finestre erano tutte sbarrate e buie.
- Ora chiamo aiuto, va bene signorina, non si spaventi. – le disse a bassa voce, poi urlò: - Aiuto! C’è una donna ferita! Aiuto! – e mentre lo faceva lei si strinse a lui singhiozzando. Kevin fece un altro passo indietro, odiava le urla e i rumori forti che non fossero il suo perpetuo abbaiare, e dopo qualche istante si aprì una finestra. Era la signora Rossi, vecchia adesso come lo era stata vent’anni prima. – Cosa c’è? – gli chiese stringendo gli occhietti miopi.
- Chiami un’ambulanza, signora Rossi, questa ragazza sta molto male? –
L’anziana donna li fissò per un attimo, un ragazzo coi capelli lunghi che abbracciava una donna nuda spor-ca di sangue; si notò il disprezzo e lo schifo, a Filippo sembrò quasi di vedere un fugace sorriso su quella faccia da carpa, come di soddisfazione per tutto quel dolore e poi, dopo quel breve istante di verità, la donna mise su una faccia preoccupata e disse: - O mio Dio! Corro! O mio Dio! – stava ancora urlando mentre richiudeva la finestra alle sue spalle.
- Troia maledetta! – disse Filippo immaginando di bastonarla con una clava, poi si voltò verso la ragazza e le sorrise. Era bella anche così, cazzo, quel poco di faccia che non era gonfio o sporco di sangue, sembrava un angelo. Le sorrise e disse: - Ora arrivano, signorina, ci sto io con lei. –
Lei abbozzò un sorriso, più che altro sollevò gli angoli della bocca, e poi sussurrò: - Aisha. – e poi si ad-dormentò. Quando l’ambulanza arrivò dopo otto minuti, lei era ancora tra le sue braccia con gli occhi chiu-si. Non gli aveva mai lasciato la mano.

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