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mercoledì 12 dicembre 2012

LA CASA SULLA COLLINA. XXX.

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Simone.

Tra i tanti ubriachi che la sera prima avevano scambiato due parole con Andrea riguardo all’intoppo che aveva fermato i lavori, uno era quello che aveva detto che là sotto, sotto ai loro piedi, c’erano degli uomini talpa vampiro che avrebbero mangiato il cervello alle persone.
Discorsi da ubriaco, naturalmente, basati su anni di pessima letteratura e di ancor più orrenda fantascienza cinematografica e televisiva.
Dopo la serata alcolica quest’uomo, tecnico specializzato che riforniva di carburante la trivella, se ne era tornato nella sua stanzetta dove aveva cominciato a vomitare l’anima scontando quelle birre che si era scolato.
Verso le tre di notte, all’incirca quando Andrea rifletteva sulla giornata appena passata e fantasticava su quella a venire gravato dal confortevole peso di Elsa che gli dormiva addosso, Simone se ne era andato a letto con un mal di testa assolutamente insopportabile e un desiderio di cadere in coma fino al mattino dopo. In coma non c’era finito, ma lo aveva colto un sonno strano, leggerissimo e assolutamente non ristoratore, ma pieno di incubi che si mischiavano a ricordi di famiglia, quelli del nonno che era stato uno dei pochi sopravvissuti tra gli ebrei di Roma deportati in Germania, e alle fantasticherie di quella sera.
E così aveva passato un paio d’ore rigirandosi nel letto in preda a quelle che sembravano più allucinazioni da LSD che sogni, con la convinzione che, chissà perché, un lupo bianco ed enorme gli si fosse appostato sotto alla finestra ululando ad un tono così basso che solo lui poteva sentirlo.
E così quando era sveglio era terrorizzato dalla presenza del lupo e quando si addormentava vedeva uscire da quel maledetto pozzo degli alieni dagli occhi rossi e i denti affilati che marciavano al passo dell’oca e che correvano divisi in manipoli tra le baracche del cantiere, che gli sembravano però le baracche in cui aveva vissuto, se così si può dire, suo nonno tra il luglio del ’43 e il gennaio del ’45.
Ogni volta che cedeva al sonno si ritrovava lì, davanti all’imboccatura del pozzo, sentendo il rumore della marcia di quegli alieni malvagi che evidentemente riuscivano a marciare battendo il tacco anche in verticale, e anche se tentava di allontanarsi, potenza dei sogni, era sempre lì e alla fine li vedeva emergere dall’imboccatura buia e sciamare per il campo con le loro facce allo stesso tempo inespressive e malvagie, urlando ordini in una lingua inumana e dura, come un tedesco urlato da mostri fatti di pietra e sapeva che, anche se si fosse nascosto da qualche parte, e chissà perché finiva sempre per nascondersi in una latrina come un bambino in un film sulla Shoa che aveva visto al liceo, loro lo avrebbero trovato, lo avrebbero afferrato, lo avrebbero torturato ridendo con le loro voci pietrose e infine, ma senza fretta, lo avrebbero divorato.
Alle cinque si svegliò per l’ennesima volta dall’incubo, proprio quando uno di quei cosi cominciava a mangiargli la faccia con le sue zanne affilate e giallastre, e si alzò per andare in bagno. Si guardò allo specchio e si spaventò, sembrava un vecchio pazzo, con occhiaie profondissime e gli occhi spiritati, da drogato. Mentre pisciava fu sicuro di sentire una risata. Una risata da cattivo dei cartoni animati. Si ritirò su i pantaloni del pigiama e si guardò intorno mentre la pelle gli si raggrumava in tutto il corpo per il terrore. Ecco! Eccola di nuovo, quella risata. Veniva dal gabinetto. A ogni scoppio di risate l’acqua del cesso ribolliva. E insieme alle risate, sotto a quelle risate, urla perentorie in quel tedesco preistorico, quella lingua che era l’idea platonica della lingua dei nazisti, della quale le urla che avevano tormentato suo nonno fin sul letto di morte erano solo una pallida e grottesca imitazione.
Tornò in camera, si sedette sul letto e tentò di convincersi di essere ancora preda dell’alcool e degli incubi, perché naturalmente sapeva che non esistono nazisti alieni vampiri sotto i suoi piedi, e sapeva che risate e grida non potevano uscire dall’acqua del cesso, almeno se non si vive a Derry nel Maine, e tentava di convincersi che nessun enorme lupo bianco stava sotto alla sua finestra a ululare e a fargli venire gli incubi, ma quello che sapeva e quello che sentiva non corrispondevano.
Tornò in bagno e si costrinse a guardare di nuovo quell’acqua, e di nuovo quelle voci gli abbaiarono le loro grida e le loro risate in faccia, e l’unica cosa che poté fare fu tornare a letto, raggomitolarsi sotto alle coperte come un bambino e piangere pieno di terrore. E fu allora che la voce del lupo gli parlò. Quello che diceva, il tono calmo con cui lo diceva, l’autorevolezza naturale che usava erano così … tranquillizzanti. Sì, ascoltare quella voce era un balsamo per la sua paura. Mentre la voce del lupo gli parlava lui annuiva e la sua paura scompariva, perché sì, c’erano dei nazisti alieni sotto di lui e volevano mangiare tutti loro, sì, ed era orribile, ma il lupo sapeva cosa fare. Il lupo gli stava dicendo cosa fare e obbedire a quella voce era l’unica cosa che avrebbe voluto fare.
E quando il lupo ebbe finito di dirgli cosa avrebbe dovuto fare, quando quella voce ebbe finito di dirgli cosa prendere, come usarlo e quando usarlo, finalmente Simone riuscì ad addormentarsi per un sonno totalmente privo di sogni. Aveva bisogno di dormire, perché la mattina dopo intorno alle nove, vicino a quel pozzo, avrebbe dovuto salvare il mondo.

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