sabato 10 gennaio 2015

I Cinghiali di Marit. III.

III

Dormì bene quella notte, malgrado i pericoli, ma se i pericoli in agguato avessero dovuto impedirgli di dormire, sarebbe morto pazzo molti anni prima.
Smontata la tenda e mangiati gli avanzi del coniglio raccolse le sue poche cose e si rimise in cammino. Le tracce dei cinghiali erano chiarissime, e lo portavano verso delle basse colline che si stagliavano all’orizzonte. Camminò per tutta la mattinata dando sempre un’occhiata dietro alle sue spalle per guardare se il fantasma lo seguiva, ma sapeva che il sole era un nemico delle creature della notte; ma di certo c’era, lui era stato con lei quando era morta e difficilmente lo avrebbe abbandonato. Avrebbe dovuto occuparsene, per gli Dei, avrebbe dovuto fare qualcosa.
Superato un passo inaspettatamente ripido malgrado la dolcezza delle colline che stava attraversando, si trovò di fronte a un problema. I cinghiali, quella torma di maledetti animali assassini che stava inseguendo, giunti a un bivio si erano divisi. Alcuni erano andati ad est, la maggior parte a basarsi sulle orme, ma alcuni, i loro piedi erano tutti umani, erano andati a ovest. E verso il tramonto, in fondo a una vallata, spiccava come la gemma su un anello una piccola cittadina cinta da mura. C’era stato anni prima, era uno schiavo allora e lottava nelle arene per mettere insieme il pranzo con la cena e per non essere frustato da quel ciccione del suo padrone. Aveva fatto uno strano verso quando gli aveva piantato la sua lama di ossidiana nel cuore, come un otre pieno d’aria che si sgonfia troppo in fretta.
Scendendo per il sentiero acciottolato attraversò una macchia di alberi fitti e subito alla sua sinistra vide una sorta di vortice nell’aria, e i brividi gli incresparono la pelle della schiena, il fantasma era lì con lui, era sempre stata con lui.
Arrivato alla porta della città coprì la sua testa rasata con il mantello e tentò di fingersi un tranquillo mercante, ma le guardie non lo guardarono neanche. Entrò e dopo pochi passi si trovò in una piazza dove si stava tenendo il mercato del bestiame e delle verdure. Passò tra piccoli cavalli dal manto bianco grigiastro con una striscia nera sulle spalle, oltrepassò gli enormi uri dalle corna alte almeno un braccio più della sua testa, e non gli era mai capitato di passare da una porta senza doversi abbassare per non colpire lo stipite, vide i conigli e i polli e addirittura un venditore di serpenti.
Comprò una manciata di nocciole arrostite e si mise a esaminare chi aveva intorno. Gente semplice, pacifica, mercanti della regione limitrofa e, ma davvero rari, mercanti di terre più lontane. Lui era l’unico nubiano e non c’era nessuno dell’etnia di Leka e di suo padre Ca-Zan. E poi vide il suo uomo, un ragazzino cieco che chiedeva l’elemosina, una persona che nessuno notava e, quindi, l’unica persona in città a sentire tutti i discorsi, anche i più segreti. Si avvicinò a lui e tirò fuori di tasca una moneta di rame.
- Quella moneta è per me, uomo gigante? – gli chiese il ragazzino.
- Vedo che senti tutto, piccolo uomo talpa. – gli disse lanciando la moneta nel suo cestino di vimini intrecciati.
- Non c’è cosa in questa città che avvenga senza che io la senta, uomo gigante. Parli strano, tu, non ho mai sentito il tuo accento, da dove vieni? –
- Da un posto e dall’altro. Diciamo che vengo da sud. –
- Capisco. – disse il ragazzino nascondendo la moneta nella manica, perché nessuno butta in un cestino dell’elemosina qualcosa se c’è già una moneta di valore. Lasciò all’interno gli spiccioli, quelli invitano ad aggiungere. – Tu sei strano, gigante del sud, le bestie hanno paura di te. Gli uri hanno sbuffato quando passavi e un cavallo ha scalciato appena ti sei avvicinato. –
- Vedi meglio di molti con gli occhi, ragazzo. –
- Le cose grosse le vedo anche con le orecchie, e tu sei bello grosso. – e rise.
- Diciamo che qualcosa mi segue. –
- L’aria fredda, i brividi nel collo, più che seguirti ce l’hai attaccata alla schiena, non ti fa paura? –
- E a te? –
- Mi fanno più paura i Cinghiali. – disse il ragazzo sputando.
- I cinghiali di Marit? – gli chiese Okaka soddisfatto del suo intuito, quel ragazzo cieco era stato la scelta giusta.
- Quelli. Li conosci? –
- Diciamo che li ho sentiti nominare. Potresti dirmi qualcosa di loro? –
- Che dire? Sono un gruppo di giovanotti e ragazzi. Camminano dietro a un’effigie che portano in alto, una testa di cinghiale. Vera, se vuoi saperlo, sentivo da qui il ronzio delle mosche. Arrivano nelle città e fanno il loro discorso, prenderemo i vostri figli, li cresceremo come grandi guerrieri, vedranno il mondo e conosceranno segreti e meraviglie, loro sarà il potere e loro sarà la ricchezza ed altre cretinate simili. –
- La gente di qui gli ha dato ascolto? – chiese Okaka.
- Almeno venti ragazzini sono andati con loro, erano tutti frementi dalla gioia, loro perché avrebbero vissuto un’avventura e i genitori perché avevano una bocca in meno a tavola. –
- Tu non sei andato con loro? –
- Non me lo hanno chiesto, e poi … io ho sentito il loro odore, più forte ancora di quello di quella testa marcia che portano in cima a un bel palo, ho sentito il loro odore e la paura che mettevano agli animali. –
- Come quella cosa che mi porto dietro? –
- Sì. – disse il ragazzo, poi si girò verso il nubiano e per la prima volta lo guardò negli occhi con i suoi occhi bianchi e vuoti. – Anzi, no. Quella cosa è pericolosa ma non è malvagia, quei Cinghiali erano falsi e cattivi. –
- Grazie ragazzo. – disse Okaka lanciandogli un’altra moneta che valeva il triplo della prima; anche questa sparì subito all’interno della manica.
Quella notte dormì in una stanza e in un letto, la cosa che era stata Leka si accontentò di un gatto e si tenne alla larga da lui e dalla sua spada e lui si addormentò.
Si svegliò nell’ora più buia della notte, in preda al terrore e ai brividi, i ragazzini che erano partiti erano tornati e stavano bussando alle porte delle loro famiglie e il suo istinto plasmato da anni di terrori gli fece capire subito che andava davvero male.

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