martedì 27 gennaio 2015

I cinghiali di Marit. IX.

IX

Molti anni prima, quando era ancora un ragazzo e faceva il pirata nel Mare dei Mostri, aveva avuto l’occasione di parlare a lungo con un mercante che aveva viaggiato sulla sua nave, a detta dei suoi compagni come ospite pagante e secondo lui, invece, nelle vesti di ostaggio. Questo mercante, un uomo anziano vestito di sete preziose, gli aveva raccontato tante storie strambe su animali di terre lontane, storie che il buon Okaka, ancora giovane e ingenuo, aveva catalogato come idiozie.
Una delle storie che gli aveva raccontato, una notte che il mare era mosso e che non riuscivano a dormire, riguardava delle formiche della Terra sotto all’orizzonte, delle formiche che coltivavano. Quel vecchio mercante di cui ora non ricordava più il nome gli aveva detto che queste formiche uscivano tutti i giorni dal loro enorme formicaio e salivano sugli alberi dove, metodiche e innumerevoli, tagliavano pezzi di foglie che si portavano fino laggiù sotto terra. Ma non erano le foglie che loro mangiavano, a no; le foglie venivano messe in una camera sotterranea, calda e umida, dove un fungo cresceva su di loro macerandole. E il fungo era il cibo delle formiche.
Questo penso Okaka in una piccola parte della sua mente mentre il terrore più enorme che avesse mai provato gli invadeva la mente. I Cinghiali, quei poveri ragazzi infettati da quel liquido rossastro, erano solo il fungo mandato in giro per le Terre Emerse per incamerare vite, i Cinghiali erano il mezzo trami te cui Shaggar-San si nutriva, il Cinghiale vincitore era lo spuntino ristoratore di quella mostruosità che urlava al mondo che il peggio esisteva, l’orrore peggiore, la crudeltà peggiore, la morte peggiore e la vita peggiore erano lì, accovacciati sotto all’enorme volta del tempio, imprigionati in quella indicibile architettura che sembrava una gabbietta contenente un grifone.
Mentre urlava in preda all’orrore, vicino a lui Leka aveva camminato all’indietro coprendo sigli occhi con le mani mentre urlava e piangeva, il nubiano tentava di capire quello che aveva davanti, ma la commistione di diverse forme, l’incestuosa unione tra parti del corpo di regni diversi, la perversione delle funzioni e delle posizioni di quello che riusciva a riconoscere, il tutto unito alla quasi palpabile aura di malvagità che emanava dall’Essere, gli stavano friggendo il cervello riducendolo, se gli Dei dei Mari avessero voluto aiutarlo, in un vegetale incapace di pensare.
Ma i sacerdoti di Shaggar-San, che ora non sembravano più umani ma erano invece simili a immagini del dio riflesse in nubi di vapori, videro lui e Leka e si lanciarono loro addosso mentre l’enorme abominio accucciato sotto al tetto masticava il povero ragazzo senza ucciderlo e beandosi delle sue grida. I due furono catturati e i sacerdoti cominciarono a colpirli con delle corte mazze di legno che portavano legate al fianco.
Okaka cadde a terra e, mentre gran parte della sua mente era ancora occupata dal terrore provocato da quella cosa che non avrebbe dovuto avere posto né in un mondo né nell’altro, ma riuscì comunque a piangere per la crudeltà con cui stavano picchiando quella povera ragazza sfortunata. Non era così che sarebbe dovuta finire, non doveva proprio finire così. E poi successe una cosa, il dio sputò quello che restava del ragazzo, ormai non più cinghiale e, solo dopo essere caduto a terra il poveraccio morì. – Si nutre solo di cose vive! – urlò alla ragazza il nubiano riuscendo a divincolarsi da quei mostri che lo stavano bastonando e lei capì.
E poi fu questione di una attimo, lei lanciò via i sacerdoti che la accerchiavano utilizzando tutta la sua forza e si gettò tra le fauci di quella cosa. E, per un brevissimo attimo, il gigante nubiano vide negli occhi giganteschi dell’Essere una cosa che prima non c’era, la paura.
E poi … poi tutto crollò mentre la Cosa e i suoi sacerdoti svanivano in una fiammata di colore nero come la notte. La Torre crollò su sé stessa in un turbinio di polveri che si elevarono al cielo mentre un grido così forte da attraversare gli spazi infiniti oltre le sfere celesti emanava dalla nuvola di fumo e macerie.

E poi, chissà quanto tempo dopo, un Okaka ferito e debolissimo si trovò a lasciare quel monte immane di macerie camminando nelle nevi alla testa di un gruppo di ragazzini terrorizzati. La marcia era estenuante e la loro meta, il villaggio da cui i ragazzi erano partiti seguendo i Cinghiali, era lontano. Ma Okaka non disperava, non più almeno da quando aveva visto un lieve, graziosissimo tremito nell’aria al suo fianco.

FINE.

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