giovedì 8 gennaio 2015

La gioia della leggerezza. (I Cinghiali di Marit. I)

Mi piace scrivere cose mie, che abbiano un certo significato, almeno per me; ma a volte, semplicemente, le idee non vengono e questo è molto triste per chi ama scrivere.
L'altra sera leggevo qua e là e mi è capitato sotto mano Conan di R. E. Howard, pura letteratura d'intrattenimento, roba leggera e priva di significato, uomini muscolosi ed eroici, donne belle e, prima possibilità, innocenti e in pericolo, o, seconda possibilità, mostri nascosti in corpi da urlo. Il tutto condito da mostruosità e crudeltà inaudite. Uno spasso.
E così mi sono messo a scrivere un'imitazione, e viene giù che è un piacere. La sto ancora scrivendo, ma comincio a pubblicarla un capitoletto alla volta. Potrete notare nel nome del protagonista un mio omaggio a un giocatore della mia squadra (Forza Samp!)
Il titolo è:

I cinghiali di Marit.

I

L’odore di carne bruciata era nauseante. Il villaggio, una ventina di capanne di paglia e fango che sorgevano sulle rive di un sorgente dalle acque scintillanti, era ridotto a pochi mozziconi di pali anneriti. Corpi, pezzi di corpi anzi, sporgevano dalla cenere che ancora fumava. Erano quasi totalmente carbonizzati, ma si notavano bene i segni delle zanne che li avevano dilaniati.
L’enorme nubiano che nelle terre del Mare dei Mostri aveva avuto il nome di Okaka girava tra le macerie che covavano ancora l’incendio sotto di loro tentando di capire da quale parte fosse arrivato l’attacco e chi, o meglio cosa, lo avesse sferrato. In quel villaggio abitavano alcune persone che lo avevano sfamato anni prima, amici, se nel mondo mostruoso e spietato di quelle lontane ere poteva esistere qualcosa di simile all’amicizia.
Svoltò a sinistra e si trovò di fronte alla capanna del suo vecchio compagno Ca-Zan, quello con cui era andato a caccia di bradipi giganti riportando la cicatrice che gli segnava la guancia sinistra. Riconobbe nel teschio ricoperto di carne carbonizzata il suo vecchio amico, gli incisivi erano sovrapposti e mancava il canino che aveva perso prendendosi al suo posto una zampata dell’enorme preda. La testa era spaccata da un colpo d’ascia e il braccio sinistro era staccato dal morso di un predatore. Uomini e animali insieme, o esseri che erano insieme uomini e animali. Possibile, a suo avviso e basandosi sulle sue esperienze.
Entrò nella capanna, restava ancora un tetto di paglia anche se bruciacchiato, e nel buio intravide un movimento. Portò la mano alla lama di ossidiana che portava al fianco, ma il lamento che gli ferì l’orecchio con la sua disperazione lo convinse a lasciarla lì. Era una ragazza a lamentarsi, e purtroppo doveva essere Leka. Prese in braccio quel corpo tremante e, borbottando parole prive di senso come si fa con i bambini piccoli, la portò alla luce.
Quella povera fanciulla dai capelli biondi come le messi prima della mietitura e dagli occhi color delle foglie in maggio, quella povera bimba che sì e no da un paio di mesi doveva aver sanguinato per la prima volta, era stata infilzata da un colpo di lama lunga che l’aveva aperta dallo sterno all’ombelico. Gli intestini occhieggiavano grigi dallo squarcio che aveva smesso di sanguinare e l’odore del sangue, della morte e di escrementi accompagnavano ogni suo lamento e movimento.
Le sue gambe, povera bimba sopravvissuta chissà perché fino ad allora, erano state divorate fino a qualche dito sopra le ginocchia. Spuntoni acuminati di osso sporgevano tra brandelli di carne ormai annerita dall’aria mentre poco, acquoso sangue, gocciolava dalle sue arterie ormai svuotate.
- Piccola mia, dormi. – le disse accarezzandole il viso sporco di terra, sangue e fuliggine, - Gli Dei del Tramonto si prenderanno cura di te nei grandi giardini del Nord. – disse ripetendo parole ascoltate chissà quanti anni prima da quella donna a lui sconosciuta che era stata sua madre.
Leka aprì gli occhi e, gemendo come un animale che sta affondando nelle sabbie mobili, lo guardò e, solo per un attimo, parve riconoscerlo; - Gigante! – disse con un filo di voce inudibile, ma fu solo un attimo, purtroppo, perché poi il suo corpo lacerato si inarcò e lei urlò: - I cinghiali! I cinghiali di Marit! – e, urlate queste parole, si accasciò tra le sue braccia, morta e come svuotata di quello che era stata.
L’enorme uomo del colore dell’ebano rimase un po’ di tempo lì in ginocchio davanti alla capanna bruciata con quel povero corpo che andava raffreddandosi tra le sue braccia, incapace di muoversi, mentre le mosche ronzavano intorno a lui posandosi voraci sui resti delle persone che anni prima lo avevano aiutato.
Dopo un po’, il sole aveva già cominciato ad abbassarsi verso il Mare di Sangue, scavò con la sua spada di bronzo una buca abbastanza profonda da scoraggiare gli sciacalli e le iene dai denti a sciabola e vi adagiò, dopo averla avvolta in una delle sue vesti che addosso a lei sembrava una coperta, la piccola Leka a cui aveva messo al collo il piccolo ninnolo d’oro a forma di scarabeo che portava con sé da quando era stato solo un giovane pirata e che lei anni prima, bimbetta che non gli arrivava nemmeno al ginocchio, aveva dimostrato di trovare bellissimo. Ci mise poco a coprirla, piccola com’era, ma ogni palata di terra era un rinforzo alla promessa fatta davanti al suo corpo e al teschio di suo padre Ca-Zan. Qualunque cosa fossero quei maledetti cinghiali di Marit e chiunque fosse a comandarli, lui li avrebbe trovati e li avrebbe sterminati. Un taglio della lama di ossidiana sul palmo della sua mano e alcune gocce di sangue lasciate cadere sulla tomba della povera bimba suggellarono in eterno la sua promessa di vendetta.
Ribattuta con cura la terra Okaka partì verso Est, da dove provenivano le impronte di piedi umani e zoccoli fessi. Le lacrime per i suoi amici le lasciò dietro di sé insieme alle sue orme, portava con sé solo la sua rabbia e la sua ferma volontà di vendetta. Sangue sarebbe schizzato dai colli tagliati dei suoi nemici, sangue avrebbe inzuppato la terra che avesse osato accoglierli per nasconderli al suo furore.

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