venerdì 9 gennaio 2015

I Cihnghiali di Marit. II.

II

Attraversò foreste e savane, guadò paludi e nuotò attraverso le acque torbide di fiumi infestati di coccodrilli e pesci-denti, scalò una montagna che gli sbarrava il passo e attraverso un deserto lungo tre giorni di cammino. Sempre, davanti a lui, i suoi occhi allenati alla caccia e alla vendetta trovavano le tracce dei cinghiali di Marit, ora umane, ora animali, ora uno e l’altro.
Era di nuovo nel folto di una foresta quando si fermò per la notte. Piantato un bastone in terra vi legò una corda di papiro tendendola fino al basso ramo di un albero, vi stese sopra il suo mantello ricavato dalla pelle dello smilodonte che, appena tredicenne, aveva strangolato con le sue mani e guardò soddisfatto la sua tenda. Ora mancava solo la cena. Cominciò a camminare in silenzio e, dopo pochi minuti, vide quello che cercava, un grosso coniglio dal pelo rossiccio. Lo seguì con calma e, quando il suo istinto gli disse che il piccolo animale stava per scartare violentemente verso una qualunque direzione, si lanciò a caso verso sinistra; la povera bestia aveva scelto proprio quel lato e il nubiano fu così veloce a spezzargli il collo che ancora le sue zampe scalciavano mentre l’uomo si rialzava tenendolo tra le robuste dita della mano destra.
Mentre tornava alla tenda tirando nel contempo fuori da una tasca il suo acciarino intravide qualcosa muoversi appena dietro di lui. Era stato poco più di una increspatura dell’aria, come un’onda che avesse spostato di un niente l’immagine delle foglie e dei rami. Il sangue del coraggioso gigante nubiano parve gelare nelle sue vene, perché già altre volte aveva visto cose simili, a Sagat nei sotterranei del Mausoleo di T-nor, a Medira sulla piramide di Klar-Th e molte, forse troppe, altre volte. Era un fantasma, un anima dannata che, nella maggior parte dei casi tornava nel mondo per vendicarsi su chi non le aveva fatto alcun torto.
Okaka sapeva però cosa fare, l’unica cosa da fare per potersi battere con un fantasma che per sua natura era incorporeo e invulnerabile. Bisognava ridargli, almeno per il tempo necessario a colpirlo, un corpo. Per fortuna aveva il coniglio il cui collo era stato spezzato da così poco tempo che ancora il cuore palpitava tra le costole.
Presa dalla sua sacca di cuoio una ciotola vi versò il sangue del coniglio aprendogli un taglio sul collo e facendo sgocciolare quella che fino a pochi istanti prima era stata la sua vita. Sollevò la ciotola in tutte le direzioni borbottando parole prive di senso e invocando nomi di divinità inventate sul momento. Poi, posata a terra la ciotola, cominciò a sfregare la pietra focaia sulla lama della spada per accendere l’esca poggiata sui rametti secchi che aveva disposto in un cerchio di pietre grigiastre. Mentre il fumo cominciava a salire dall’esca vide di nuovo l’increspatura vicino alla ciotola e sentì l’osceno risucchio che aveva imparato a conoscere nei sotterranei di Sagat. Ancora pochi istanti e il fantasma avrebbe avuto una forma e un corpo che lui avrebbe potuto colpire. Poggiando un rametto appena più robusto sul focherello che appena cominciava a divampare sull’esca vide l’aria sopra alla ciotola scurirsi e prendere delle sembianze umane. Impugnò meglio la spada e lanciandosi sulla forma accovacciata sul sangue sentì sibilare qualcosa vicino al suo orecchio. Un piccolo dardo nero e sottile lo aveva quasi colpito alla guancia. Cadendo a terra vide chi lo aveva lanciato, un piccolo aborigeno dalla pelle dipinta di rosso che indossava solo una corta gonnellina di paglia. Conosceva gli uomini di quella tribù, li aveva già incontrati. Quei dardi erano avvelenati e le loro vittime, dopo una morte breve ma comunque molto dolorosa, diventavano di solito la portata principale del banchetto del villaggio. Aveva solo qualche istante prima che il minuscolo selvaggio infilasse un altro dardo nella cerbottana, troppo poco tempo anche per un guerriero straordinario come lui, ma di certo non si sarebbe arreso, non Okaka del Mare dei Mostri. Ma non fece in tempo a reagire, non ne ebbe alcun bisogno. Quella evanescente figura che era sorta dalla ciotola di sangue fu più veloce di lui e aggredì il lanciatore di dardi lacerandogli il viso con le unghie e affondando il suo volto nel collo dalla pelle delicata. Il risucchio fu ancora più forte, questa volta, accompagnato dai gemiti del morente e dallo scalpiccio dei suoi piedi mentre moriva.
E fu solo quando i piedi dell’uomo che aveva tentato di ucciderlo si fermarono che quella figura divenne solida come un corpo in carne e ossa e si voltò verso di lui. Malgrado il sangue che le lordava il viso, malgrado gli occhi dalla pupilla verticale, nonostante la sensualità mortale che emanava dal suo nuovo corpo, riconobbe subito in lei la piccola Leka che aveva sepolto solo pochi giorni prima. Lei lo guardò piegando la testa da un lato e gli sorrise con i suoi denti aguzzi. – Ciao gigante, mi devi un favore. – disse e poi, prima che lui potesse risponderle con una parola o un colpo di spada, fuggì con un’agilità sovrumana sparendo tra gli alberi.
Con un colpo di spada spiccò la testa del piccolo uomo dal suo corpo che andava raffreddandosi, meglio esser sicuri che non potesse più tornare a camminare tra i vivi e poi, i suoi sensi sempre vigili e attenti a quanto si aggirasse tra gli alberi nell’oscurità della notte che stava calando, cominciò a cuocere il coniglio su uno spiedo ricavato da un ramo. I cinghiali di Marit erano a giorni di cammino davanti a lui, gli indigeni, se altri avevano seguito il povero cadavere che giaceva a pochi metri da lui, dovevano essere scappati via in preda al terrore e la piccola Leka non avrebbe avuto fame per qualche giorno. Poteva dormire, per quella notte, stando attento a lupi e tigri dai denti a sciabola. Sarebbe stata una notte tranquilla, per il suo metro.

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