domenica 11 gennaio 2015

I cinghiali di marit. IV.

IV

La famiglia che gli aveva affittato una camera era formata da un padre calzolaio, una madre lavandaia, un figlio andato con i Cinghiali, uno di cinque anni che combinava guai per le vie della città e uno di un paio di mesi che non si staccava mai dal seno della madre. Il ragazzino che due giorni prima era partito con i Cinghiali ora era tornato e, nel profondo della notte, bussava alla porta implorando la madre e il padre di farlo entrare. Il gatto di casa soffiava con la coda così gonfia da mostrare la pelle rosea sotto al pelo nero e il cane si avventava contro alla porta con una violenza tale da ferirsi il naso e le unghie. I bambini piangevano e i due genitori litigavano,
- Fammi entrare, mamma, ti prego! Ho freddo! – diceva il bambino con una voce che strideva nelle orecchie come una pietra che scivoli malamente su un’altra e il padre strigeva a sé la donna dicendole che quello non era più il figlio. Dalle case vicine, dalle vie lì intorno arrivavano già grida di gente ammazzata e versi di belve.
- Mamma! Ho paura e ho tanto freddo! – diceva la voce fuori dalla porta e la donna urlava strappandosi i capelli.
- Ci penso io. – disse il gigante nubiano mettendosi tra i due e la porta col suo pugnale di ossidiana in mano, e mai nelle sue peregrinazioni aveva trovato un nemico dotato di un corpo che non potesse essere ferito da quella lama. Le grida fuori dalla casa erano intanto sempre più forti.
- Ci può difendere? – gli chiese l’uomo che ora aveva preso in giro lo scugnizzetto che piangeva urlando a livelli da spaccare i timpani.
- Peso di sì. – disse Okaka e solo allora vide Leka. Gli stava indicando qualcosa alle sue spalle, si girò e fece appena in tempo a vedere il tronco nodoso che la madre gli stava scaricando addosso. Alzò una mano per intercettare il colpo e ottenne solo di rompersi un paio di dita prima di essere colpito alla tempia destra. Cadde a terra afflosciandosi come uno straccio e solo una parte periferica della sua mente si accorse della spinta che la donna gli diede facendolo rotolare in una specie di vano semi interrato che doveva essere una specie di carbonaia. Rotolò andando a fermarsi contro un muro e, prima di partire definitivamente per l’altro mondo sentì le grida di dolore di una donna e vide Leka fermarsi sulla botola da cui era caduto.

Qualcosa lo colpì a una gamba, non sapeva cosa, poi ci furono dei versi e qualcosa gridò vicino a lui, con gli occhi annebbiati vide qualcosa che lo mordeva su un braccio, una sorta di enorme muso peloso, il dolore lo raggiunse come da mondi distanti, ma lo fece risvegliare abbastanza da fargli sferrare un pugno poderoso contro l’animale. Sentì il rumore di ossa che si spezzavano e lo vide cadere lontano. Dopo qualche istante lo vide rialzarsi e, prima che potesse anche solo pensare di reagire, Leka fu addosso all’animale. Grida, rumori di colpi, quel risucchio si confusero nella sua mente col dolore alla testa e quello al braccio e alla gamba e al rimbombo cupo del suo cuore. – Dormi gigante, - gli disse Leka mentre lui scivolava di nuovo nel sonno dei feriti – Leka si prenderà cura di te nelle oscure ore della notte. – e lui si spense di nuovo.

Almeno un altro paio di volte lo svegliarono forti rumori, una volta lottò di certo con un altro mostro, sentì grida e sognò così chiaramente l’odore del fumo da sapere, in una qualche parte della sua mente, che il fumo doveva avercelo davvero intorno. Ma per la maggior parte del tempo fu come non esserci.

Si svegliò che il sole era già alto, la puzza di fumo e di morte tutto intorno a lui. Nella penombra di quella cantina vedeva tre corpi di vittime di Leka, ragazzini di poco più grandi di lei. Ignorando il dolore si alzò e, puntellandosi a una parete per le vertigini uscì dalla botola. La casa non c’era più, rimanevano solo il camino e alcune travi annerite. La città non era ridotta meglio. Cadaveri ovunque come nel villaggio da cui era cominciata la sua caccia, persone e animali morte e smembrate. Sulla sua gamba una ferita da taglio poco profonda e sul suo braccio un morso di un animale dai denti spaventosamente grandi. Si avvicinò a un legno che ancora bruciava, lo staccò con un movimento del braccio buono e poi se lo appoggiò sulla gamba e sul braccio. Urlò stupendosi per come la sua voce rimbombava tra le vie vuote e poi fu di nuovo tutto nero. Non si accorse nemmeno di cadere.

- Sei forte, Gigante del sud, pochi sarebbero ancora vivi. – gli disse la voce di un ragazzino svegliandolo. Gli stava dando da bere. Succhiò avidamente quell’acqua che sapeva di cenere e sentì quel liquido entrargli dentro dandogli forza.
- Bevi piano che se no la rigetti. – disse ancora la voce.
- Ragazzo talpa. Sei vivo? –
- Non avendo una casa dormo nelle fogne. Quelle cose non mi hanno cercato e io mi sono tenuto lontano da loro. –
- Cos’erano? – gli chiese rimettendosi a sedere e guardando con una certa soddisfazione le sue ferite. Orrende, davvero, ma non infette. –
- I ragazzi partiti due giorni fa. Ma anche no. Erano cose, bestie. –
- Non c’è nessun altro? –
- Solo la tua amica che va a caccia di topi. Ogni tanto sento che si avvicina per controllarti. Hai strani amici, gigante del sud. –
- Un fantasma succhiatore di sangue e un ragazzo cieco. –
- Sì. Non stai messo troppo bene. – e rise.
- Sai dove sono andati? –
- A est, direi. Sono partiti quando è sorto il sole. –
- Devo seguirli. – disse Okaka alzandosi, ma la debolezza gli fece piegare le gambe. Era quasi morto quella notte e per la sua vendetta sarebbe dovuto passare del tempo.
- Mi sembri un po’ debole, gigante. –
- Diciamo che la fine dei Cinghiali di Marit è rimandata di qualche giorno. – disse sedendosi – Pensi che sia rimasto cibo? –
- Sì. – gli disse il ragazzo cieco.
- Non ci serve altro. Tra qualche giorno partirò e la farò finita. –
- Tu, la ragazza vampiro e io partiremo e la faremo finita. Quei maledetti hanno ucciso la mia città. – disse il ragazzo alzandosi e andando a prendere dell’altra acqua. – Era la mia città, cavolo! -

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