lunedì 12 gennaio 2015

I Cinghiali di Marit. V.

V

Entro sera lasciarono la città in rovina, le grida degli avvoltoi e i latrati degli sciacalli erano assordanti, raccolsero del cibo e si diressero sulla collina che sovrastava la città. Il ragazzo cieco lo dovette aiutare a camminare nei tratti più duri della salita e comunque dovettero fermarsi tre volte. Il dolore alle ferite era orrendo e la botta che aveva preso in testa gli faceva venire la nausea a ogni più piccolo movimento, molto probabilmente quella madre pazza doveva avergli fratturato il cranio oltre alle due dita che aveva già provveduto a steccare con l’aiuto del ragazzo.
Non si ricordò mai troppo bene i sette giorni successivi, li passò a dire il vero in un ininterrotto stato di dormiveglia dolente e confuso, ma sapeva bene di dovere la vita e la salute al piccolo ragazzo talpa e a Leka che cacciava per loro e che teneva lontane le belve.
Quando infine superò il trauma esaminò le ferite e le fratture; si stavano cicatrizzando, la sua collezione di segni spaventosi si era arricchita di qualche altro bell’esemplare, ma ciò non lo preoccupava. Quanto alle fratture … malgrado la sua forza sovrumana, per quelle poteva solo aspettare che guarissero. In due settimane sarebbe stato di nuovo in piedi e tempo un mese sarebbe stato di nuovo abbastanza forte da combattere. E aveva voglia di combattere, o se ne aveva, dopo aver visto cosa facevano i Cinghiali di Marit alla povera gente. Lo avevano preso in un momento in cui non poteva difendersi e lo avevano quasi ucciso, ma era quel “quasi” a fare davvero la differenza. Appena fosse stato di nuovo sé stesso li avrebbe cercati, li avrebbe trovati e poi, con immenso piacere, li avrebbe sterminati dal primo all’ultimo.
Fu come nascere e crescere di nuovo, doloroso, lento, ripetitivo e però, in un qualche modo, divertente. Dovette ricominciare a camminare e a correre, dovette riallenare il suo corpo a mangiare molto, all’inizio se mangiava più di un pugno di riso vomitava, dovette rinforzare i suoi muscoli atrofizzati dalla malattia e dall’insufficiente alimentazione. Il ragazzo talpa e Leka erano sempre con lui, e anche loro fremevano dalla voglia di vendicarsi. Lui era simpatico e lei … beh, che dire, in lei c’era ancora abbastanza della ragazzina che si era appesa alle sue braccia da piccola per non uccidere immediatamente la cosa che era diventata.
E poi ricominciò a cacciare e i suoi muscoli si gonfiarono di nuovo trasformandolo in quella statua di bronzo, striata di cicatrici in ogni parte del corpo, che i suoi nemici avevano imparato a temere. Due lune erano passate dalla morte di Leka, una e mezza dalla distruzione del villaggio che già sembrava riempirsi di erbacce e rampicanti davanti ai loro occhi. Okaka era di nuovo pronto a vendicarsi e a distruggere le forze del male che infestavano la terra degli uomini.
E così, una mattina presto, il sole nascosto da una lieve nebbia che inumidiva tutto, diedero l’addio alla capanna che li aveva accolti e partirono per un viaggio di vendetta e di morte. Come sempre nella sua vita, pensò tristemente Okaka che a volte, poco prima di risvegliarsi nel suo mondo di mostruosità, ricordava i primi anni della sua vita, vicino a sua madre e a suo padre che lo avevano amato.

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