giovedì 4 giugno 2015

Berserker. 10

Nuovo capitolo, in 'sto periodo scrivo un bel po'. Buona lettura!

La lite col Politburò, i due crucchi litiganti e gesticolanti, quel cavolo di sanatorio circonfuso di luci e contornato di reticolati come un carcere, e poi la fame che gli stava venendo e il freddo. Se a questo si univa il poco tempo che avrebbe avuto una volta giù in paese per fare una grande quantità di cose, il suo umore era sempre peggiore. Non riusciva nemmeno a ripensare a Miriam, ci provava ad immaginarsela mentre mangiavano insieme delle patate lesse, mentre giocavano a carte, mentre lei si cambiava per la notte e lui aspettava fuori dalla baracca che lei lo richiamasse dentro sforzandosi per non sbirciare dalle fessure tra le assi, ma proprio la sua mente non voleva concentrarsi su di lei. Era come se si stesse preparando per qualcosa, come se si aspettasse da un momento all’altro qualcosa di molto brutto.
E invece vide arrivare un cane. Era Carlomagno, il cane di Bartolo. Era di razza carlomagna probabilmente, era alto circa come un bracco e peloso all’incirca come una pecora un mese dopo la tosatura. Era un cane buono e pauroso, un grosso batuffolone di pelo innocuo. Si spaventò vedendolo scendere al buio per il sentiero, ma quando lui lo chiamò caracollò allegro verso di lui. Aveva una macchia nera sul muso, lo toccò e capì subito che con una luce diversa quel nero sarebbe stato rosso. Il cane era macchiato di sangue, qualcuno gli aveva dato una botta molto forte sul muso facendogli saltare un paio di denti. Si sentì ribollire il sangue, per quanto la metafora sia orrenda e abusata, gli sembrò proprio di avere del liquido bollente dentro. Perché chi maltratta un cane buono deve essere proprio marcio dentro, e perché, ci pensava solo ora, Bartolo non avrebbe mai permesso che gli toccassero il cane senza reagire.
Scese giù col cane e, dopo pochi minuti, vide una strana forma in mezzo alla strada carrabile in cui andava a sbucare il sentiero. Una specie di grossa X, come uno spaventapasseri. Accelerò e capì quasi subito che non era fatto di paglia, quel fantoccio. Era Bartolo. Avevano incrociato due legni lunghi un paio di metri, lo avevano legato a braccia e mani aperte sui quattro bracci della croce e poi … ringhiò alla notte intorno a lui come un animale, lo avevano ucciso a colpi bastone, forse avevano usato il retro del fucile. E poi, scritto col suo sangue, gli avevano messo un cartello appeso al collo, con su scritto, in italiano corretto “Ha imparato a non chiamare come il Fuhrer il suo asino. Chi toccherà questo corpo prima di un mese imparerà a sua volta a non farlo”.
Si guardò intorno e, guidato dal ronzio delle ultime mosche che non erano ancora state uccise dal freddo, vide anche Adolf. Con lui erano stati magnanimi, una fucilata alla tempia. Si sedette in terra piangendo, un uomo buono era stato ucciso come lui non avrebbe ammazzato un cane rabbioso, un uomo buono a cui lui voleva bene era morto attaccato a una croce ucciso da degli animali, da umani peggiori degli animali. Prese una pietra e la scagliò lontano, nel campo buio, continuando a piangere.
- Non sono stati i Tedeschi da soli. È stato quel fascista che è venuto con loro, lo chiamano Toti. – gli disse una voce dal buio sotto a un albero. Era Mirella.
- C’è un italiano con loro? –
- Un uomo sulla cinquantina, alto e robusto, il più cattivo di tutti. Ha voluto che stessimo a guardare mentre lo ammazzavano con i cani dei fucili. C’è voluto tanto, più di cinque minuti. Poi, mentre stavano andando via, si è girato e ha sparato all’asino. –
Ettore non le rispose, non avrebbe saputo cosa dire. Avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto strappare quel corpo martoriato da quel patibolo e seppellirlo, ma qualcuno avrebbe pagato al suo posto se lo avesse fatto. Poi dal buio uscì anche il prete, Don Andrea, un vecchio prete tranquillo che camminava col bastone. Arrivò vicino al corpo e lo asperse con l’acqua santa dicendo delle parole in latino a bassa voce. Poi Mirella, quando lui si fu allontanato, prese un pugno di terra e la gettò sul corpo. Anche Ettore lo fece e poi pensò che se lui era Niso, o Ulisse, Mirella era Antigone. Sorrise suo malgrado e poi andò verso il paese con i due anziani. Gli raccontarono quanti erano i crucchi, gli dissero dove stavano e gli riferirono il poco che sapevano su cosa i crucchi stessero facendo nel sanatorio di Santa Lucia. Pare che avessero dei prigionieri, dei poveracci in pigiama a righe che sembravano dei morti viventi, e che ci fossero molti dottori che giravano in camice, camice con gradi da SS.
Poi, rifornitolo di pane, salami e caciotte, lo lasciarono al suo viaggio di ritorno. Arrivò su che albeggiava e dopo meno di un’ora erano tutti in assemblea per decidere cosa fare. Naturalmente, e purtroppo, tutti seguirono l’idea del Cinese. L’idea peggiore.

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