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giovedì 19 luglio 2012

Ecco il capitolo VII:

VII

Daniel Libeskind, Zaha Hadid, Santiago Calatrava, Renzo Piano e Ben Hanscom. Le archistar. Così li chiamavano, i grandi architetti che, secondo la simpatica definizione di un suo amico italiano erano passati ormai alla qualifica di Venerati Maestri, essendo le prime due quelle di Giovani Promesse, a inizio carriera, e Soliti Stronzi, a metà tra una e l’altra, nel pieno della creatività.
Erano gli architetti da cui ci si aspettava sempre un capolavoro e quando ti aspetti con tanta fiducia qualcosa, ti sforzerai in ogni modo di vederla in quello che ti troverai davanti. Per lui sarebbe stato meglio definirli invece quella manciata di architetti sparsi per il mondo a cui era permesso costruire qualunque obbrobrio senza essere per questo inseguiti con i forconi dalla popolazione inferocita.
Aveva sempre pensato, il nostro Ben, che la creatività fosse un qualcosa di connaturato all’immaginazione tipica della giovinezza, e all’età di 65 anni non si sentiva assolutamente giovane, soprattutto dopo una notte passata a rigirarsi nel letto in preda ad incubi orrendi, la seconda notte consecutiva, tra l’altro. Quando gli offrivano un lavoro, perché erano ormai molti anni che non doveva chiederlo, gli Stati, le città e i ricchi industriali facevano a gara per fargli costruire qualcosa, tentava di capire cosa desiderassero da lui, qualcosa di moderno e strabiliante, naturalmente, e lui scarabocchiava qualcosa su un foglio, mettendo delle pareti inclinate dove la logica le avrebbe volute dritte e dei vetri dove cinquemila anni di esperienza ci dicono volerci dei mattoni. Più quello che disegnava era illogico, e più andavano in visibilio.
Assonnato, più stanco della sera prima quando si era coricato accanto a Beverly come sempre un po’ puzzolente di Whiskey, con delle occhiaie che avrebbero potuto contenere più spiccioli del suo portamonete, Ben Hanscom camminava a passo spedito per la piazza antistante il Pantheon che torreggiava su di lui dall’alto dei suoi quarantatre metri. Le vie di Roma erano ancora semideserte, erano le sette e venti e l’aria era già incandescente. Salendo gli scalini al di sotto del frontone, M. AGRIPPA L. F. COS III FECIT diceva l’iscrizione che stava lì da una sessantina e più di generazioni della sua famiglia, vide il custode che stava ad aspettarlo. Era una delle poche cose che amava del suo essere il famoso Ben Hanscom, se chiedeva di visitare un monumento in orario di chiusura, la risposta era sempre “Sì, certo, è un piacere”.
Il custode lo salutò sorridendo, evidentemente doveva avere visto le sue foto durante un telegiornale, mentre stringeva la mano a Obama o a Putin o a chissà chi altro, armeggiò con la serratura e gli aprì la porta, una porta in quercia e bronzo che stava lì a girare su quegli stessi cardini da milleottocento anni e gli fece cenno di entrare. Poi gli chiuse la porta alle spalle. Per almeno un’ora, alle otto e mezza l’enorme tempio consacrato un tempo a tutti gli dei e ora alla Madonna sarebbe stato aperto ai turisti e ai fedeli, avrebbe avuto il tempio tutto per sé.
Solo in quella enorme sala circolare, mentre il sole faceva capolino nell’occhio in cima alla cupola, qualcosa come una quindicina di piani sopra di lui, Ben Hanscom ebbe uno di quegli attacchi di malinconia che aveva imparato ormai a conoscere come sintomi dell’incipiente senilità. Mentre all’altro capo del mondo una cosa non meglio identificata emergeva da una tomba chiedendosi chi era, particolare che per quanto lui non ne fosse cosciente era ben noto alla sua mente, una delle più note archistar del mondo piangeva vedendo quanto un architetto di milleottocento anni prima, Apollodoro di Damasco, che lavorava solo con matite, fogli di papiro, righe e squadre, fosse infinitamente più bravo di lui. Tutta quella bellezza, quella perfezione che si riversava nei suoi occhi da ogni lato, lo riempivano di inquietudine e meraviglia, forse anche di terrore, perché si rendeva conto di quanto il suo contributo alla storia dell’umanità fosse inutile e fastidioso.
Ben girava per la sala assorbendo ogni particolare, ogni costolone che formava la volta con i suoi cassettoni, ogni singolo disegno del pavimento policromo, sentendo qualcosa dentro di sé che si atrofizzava e moriva, l’orgoglio per il suo lavoro. Piangeva ormai a dirotto senza alcun ritegno, era solo, cacchio, terrorizzato e felice, non rendendosi conto che parte di quel terrore, o forse tutto quel terrore, venivano invece dalla cosa informe che stava in quel momento sfrecciando nelle fognature di una cittadina totalmente scomparsa dalla sua memoria ma che era stata fondamentale per lui. Più quella cosa si avvicinava alla sua tana, una tana che lui aveva visitato due volte con i suoi più cari amici tentando inutilmente di ucciderla, più Ben Hanscom si raggomitolava nel suo terrore impotente.
E fu alle otto, le due del mattino a Derry, proprio quando le zampe di un enorme ragno, che non era solo un ragno, cominciavano a muoversi, che Ben Hanscom realizzò con orrore che quella splendida sala, quel capolavoro, lo colpivano così tanto perché gli ricordavano una sala ipogea che aveva visitato. Mentre il ragno diventava clown e sorrideva, quanto malignamente, a un bambino, Ben ricordò dove questa sala si trovasse e nel momento stesso in cui il clown, che sembrava però adesso il non compianto Philip Stone, afferrava il bambino, Ben Hanscom ricordò tutto, ma proprio tutto e, emesso un urlo strozzato di dolore e paura, crollò al suolo perdendo i sensi su un pavimento vecchio di milleottocento anni. – IT – disse prima di chiudere gli occhi.

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