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domenica 22 luglio 2012

Capitolo IX, Beverly Marsh.

IX

La vecchiaia quando arriva ti sottrae molte cose, pensò quella mattina Beverly Marsh Hanscom alzandosi dal suo lussuosissimo letto nella lussuosissima suite dell’ultralussuosissimo hotel nel centro di Roma in cui lei e suo marito avevano passato la notte. Una cosa che sicuramente le aveva sottratto era il sonno e il piacere di starsene a letto a poltrire. E così, non avendo assolutamente nulla da fare, Beverly si alzò dal letto alle sette e trenta e andò ciabattando in bagno.
Mentre il vetusto portone del Pantheon si chiudeva alle spalle di suo marito Beverly si sedeva sbadigliando sul water e svuotava la vescica ringraziando Dio di non aver dotato le donne di prostata, perché aveva notato che per Ben pisciare era diventato una sorta di tortura della goccia al contrario. Sfilatosi il pigiama mentre l’acqua della doccia raggiungeva la temperatura giusta, trentasette gradi e mezzo, pensò che era un bel po’ che dormiva in pigiama e non con la camicia da notte. E ancora di più che non dormiva nuda. Vecchiaia.
Rimase ferma sotto il getto d’acqua facendo scivolare via nello scarico, giù nelle fogne pensò con un brivido privo di senso, il lieve cerchio alla testa lasciato dal cicchetto della sera prima. Tanto prima delle dieci sarebbe arrivato un nuovo cicchetto a sostituirlo. Si insaponò con cura, ogni giorno di più le sembrava di puzzare di vecchio, si risciacquò e rimase poi altri cinque minuti sotto l’acqua, al diavolo il risparmio idrico e quello energetico.
Chiuso il rubinetto uscì dalla cabina gocciolando sul pavimento di cotto fiorentino o qualcos’altro di similmente lussuoso e si fermò davanti allo specchio. Per essere così vecchia era ancora bella. Strana frase che si dà torto da sola, pensò, come bella morte e puzza profumata.
Guardando il suo corpo di sessantacinquenne Beverly invidiò le donne nate brutte. Sì, le invidiò davvero, quelle donne nate grasse, quelle nate col naso storto e gli occhi bovini, quelle a cui le tette non sono mai cresciute e quelle che a dodici anni avevano già una sesta sproporzionata e molliccia. Quelle col culo piatto e le gambe secche, quelle col culo grosso che non sta nelle sedie. Quelle con una voglia sul viso e il sorriso storto. Quelle che hanno i capelli che appena lavati sembrano unti.
Beate loro, pensò, beate loro. Guardando i suoi seni che erano scesi di cinque centimetri buoni negli ultimi trenta anni, guardando le sue spalle incurvate, il suo ventre gonfio, i fianchi a rotoli e le gambe magre e cosparse di piccole vene violette invidiò con tutto il cuore le donne nate brutte.
Che grande fortuna la loro, pensò, che grande fortuna potersi immaginare senza gli sguardi degli uomini a carezzarti le forme, essere abituate a entrare in una stanza senza che tutti gli uomini si girino verso di te. E per strada, non essersi mai abituate a vedere gli uomini venirti incontro e poi girarsi per controllare se il lato B è all’altezza del lato A. Che fortuna sfacciata imparare che a questo mondo la gente non è gentile se gli chiedi qualcosa, pensò cominciando ad asciugarsi, sapere fin da subito che quando ti cade qualcosa nessun uomo si chinerà per raccoglierlo sorridendoti mentre te lo porge.
A undici anni era già bella, quando aveva incontrato Ben pensò stupendosene, e per lei il mondo era fatto di sguardi sognanti, per lei il suo aspetto era quello che vedeva riflesso nelle espressioni degli uomini che la vedevano.
E ora, pensò finendo di asciugarsi, le braccia ricoperte di piccole macchie scure là dove c’erano sempre state graziose lentiggini, ora era il nulla. Era invisibile agli occhi degli uomini, invisibile all’invidia delle donne. Aveva smesso di lavorare dieci anni prima, stanca di disegnare vestiti che non avrebbe più indossato. Non era più una madre, da quando allo scoccare dei diciotto anni Eddie se ne era andato al college per trasferirsi poi nell’Outback australiano per studiare i canguri e i koala. Non era più una moglie per Ben, al massimo un’amica con cui raramente se ne faceva una veloce, tanto per onorare gli anelli che portavano al dito. Non era neanche più rossa, i suoi capelli si erano ingrigiti quindici anni prima e da due anni non li tingeva più.
“Brace d’inverno
I capelli tuoi,
Dove il mio cuore brucia.”
Così aveva scritto Ben cinquantaquattro anni prima a Derry, pensò alle otto meno cinque stupita del nome di città che le era venuto alla mente, sbalordita da quel ricordo mai più tornato alla sua mente negli ultimi trenta anni, anzi no, ventisette anni. C’era poca brace nei suoi capelli, e poca nel loro matrimonio. E il peggio doveva ancora venire, pensò rabbrividendo. Alzheimer? Parkinson? Ictus? Aneurisma? Infarti o colpi vari? Cosa sarebbe giunto ad allietarli negli ultimi anni della loro vita?
E poi Ben si lamentava dei suoi cicchetti. Un po’ di whiskey al mattino, due sorsi di bourbon al pomeriggio, del vino rosso a cena e un bicchierino di whiskey ancora prima di addormentarsi e tutto sembrava diventare più rosa, sembrava un tramonto migliore. Un tramonto dal cielo rosso. Come quando si erano messi in circolo, pensò mentre la pelle le si accapponava così tanto da darle del dolore, si erano messi in circolo con le mani sanguinanti in un giuramento di sangue giurando di tornare a uccidere It. Questo pensò alle otto precise, mentre il clown sotto Derry si trasformava in Philip Stone e aggrediva il piccolo Bobby, mentre Audra Phillips saltava fuori dalla vasca da bagno per correre il suo ultimo tentativo di fuggire alla morte, mentre Ben crollava al suolo sopraffatto dalla memoria e mentre la mandibola di Eddie Kaspbrak si abbatteva in un urlo muto.
Seduta in terra con le spalle appoggiate a un comò Berverly Marsh ricordò tutto quello che aveva dimenticato e così, d’un colpo, l’avere sessantacinque anni le sembrò l’ultimo dei suoi problemi. It era tornato.

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