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martedì 24 luglio 2012

Capitolo XI, Richie.

XI

Quelli che amano parlare forbito chiamano questa cosa serendipità, che sarebbe a dire una cosa che ti accade, una cosa buona, mentre tentavi di farne un’altra. Fleming che lascia delle colture di batteri aperte e vi trova poi dentro una muffa che li ha uccisi, ed ecco lì la penicillina. Roentgen che appoggia sbadatamente una mano su una lastra fotografica mentre studia i suoi misteriosissimi raggi, tanto misteriosi da averli chiamati X, ed ecco lì che appare una bella radiografia della sua estremità
Un altro esempio era la carriera di Richie Tozier. Al culmine della sua carriera di dj, nel maggio 1985, quando tutte le radio sono ai suoi piedi, lascia tutto per tornare al paesello natio per una ragione incredibilmente stupida, visto che non la ricordava nemmeno più, scampa per miracolo a un mezzo cataclisma in cui la ridente cittadina si inabissa in una voragine puzzolente, torna a Los Angeles senza lavoro e, ecco lì la serendipità, schiatta il conduttore del programma di punta della notte della CBS di Los Angeles. E i produttori chiamano il trentottenne Richie che scopre che la sua faccia da secchione un po’ stagionato, che riusciva ad attirare solo un sacco di pugni alle medie e al liceo, risulta essere una vera e propria calamita in tv, rendendolo l’idolo delle folle, o almeno delle folle che alle undici di sera vogliono gustarsi delle interviste spiritose ma non cretine.
E ora, ventisette anni dopo, il buon Richie era ancora lì, quattro sere alla settimana, a leggere le battute che il suo formidabile staff di autori scrivevano per lui scartabellando giornali e siti web, mentre sulla sedia accanto alla sua si sedevano politici, campioni dello sport, intellettuali, star del cinema e comici affermati.
Era una bella vita, molto migliore di quella che sognava da bambino, anche se non ricordava poi così bene i suoi sogni di allora. E allora perché era così triste e irascibile negli ultimi giorni?
Sentiva come una cappa di aria irrespirabile su di lui, sempre più stretta, più irrespirabile dell’aria di Los Angeles in luglio. Le ultime due notti non aveva dormito quasi per niente, Kasia, la bella ventinovenne polacca che conviveva con lui da un anno, gli aveva detto che aveva incubi orrendi, incubi che parlavano di fogne e di pagliacci.
Seduto al tavolo del truccatore, mentre Sean gli dava un generoso strato di cerone sulla faccia, sfogliava il libro dello scrittore che sarebbe stato suo ospite quella sera. Bill Dembrough. Scriveva bene, il tizio, niente da dire. Le sue parole ti scorrevano addosso come acqua, ma le cose che raccontava facevano paura, anche se erano solo storie di ragazzi che camminavano lungo una ferrovia.
Negli ultimi giorni si era procurato alcuni libri di Dembrough e li aveva leggiucchiati e forse erano quelli che gli avevano fatto venire gli incubi, cazzo, quello scrittore c’aveva delle belle zone buie in testa.
Poi, alle dieci e venticinque, stava per andare in scena, lesse un paio di righe che parlavano di bulli che vessano i più piccoli e, senza neanche accorgersene si ricordò Henry Bowers, il suo incubo alle elementari. E proprio mentre ricordava questa cosa il truccatore gli urtò gli occhiali che caddero a terra. Richie senza occhiali era quasi cieco e anche Bowers gli aveva gettato gli occhiali a terra, cacchio, e glieli aveva anche rotti con una pedata.
- Cazzo Sean! – urlò facendo girare tutti nello studio – Ma perché non te le infili nel culo quelle cazzo di mani di merda? – e Sean raccogliendogli gli occhiali e porgendoglieli lo aveva guardato malissimo.
Si alzò dalla sedia aggiustandosi la giacca italiana blu notte, controllò di avere le scarpe da ginnastica grigio chiaro ben allacciate, perché Richard Tozier senza scarpe da ginnastica non lo avrebbero neanche riconosciuto gli Americani, poi si avvicinò all’assistente di studio e gli chiese quali erano gli sketch della serata.
- Va tutto bene, Richie? –
- Mi ha fatto cadere gli occhiali. – rispose quasi ringhiando – Ho dormito poco, ecco. –
- Con Kasia capisco. – disse l’altro, ma lo sguardo di Richie lo incenerì lì sul posto.
- Allora, dopo le battute e la canzone di Paul, che scenetta c’è? –
- Quel tizio dei palloncini. –
Richie rabbrividì e deglutì un paio di volte. – Chi? –
- Quel clown che arrotola i palloncini facendo bassotti e giraffe, sai, lo abbiamo visto tre giorni fa. Le battute sono tutte incentrate sul fatto che mentre arrotola i palloncini sembrano cazzi. –
- Clown? –
- Cosa? –
- Hai detto che è vestito da clown? –
- Sì. Due minuti, Richie. –
- Non lo voglio. –
- Chi? –
- Il clown. Mandalo via. –
- TI stai rincoglionendo, Richie. Stiamo per andare in onda. –
- Non lo voglio qui stasera! – urlò di nuovo e tutti si voltarono di nuovo a guardarlo, anche lo scrittore che era adesso al trucco.
- Senti Richie, calmati. – guardò in alto al timer, un minuto, i cameraman si stavano posizionando e il gobbista si era andato a mettere davanti al pubblico per suggerire le battute.
- Ti prego, Mitch. – disse Richard Tozier – TI prego. –
- Venti secondi, Richie. – disse l’assistente e allargò le braccia.
Cazzo. Pensò Richie, the show must go on si disse, allargò la sua smorfia di paura immotivata in un sorriso e si lanciò di corsa sul palco per fare la sua famosa entrata in scivolata. Gli sembrò di avere di nuovo undici anni e di fuggire da qualcosa di mostruoso. Erano le dieci e trenta, a un continente di distanza un qualcosa usciva da una tomba chiedendosi chi potesse mai essere e all’altro capo del mondo Ben Hanscom entrava nel Pantheon.
- Salve amici! – disse alle telecamere.

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