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mercoledì 18 luglio 2012

Capitolo VI:

VI

Il mondo che ci appare omogeneo, è in realtà percorso da finissime linee di faglia che lo rendono fragile e basta che una forza venga applicata abbastanza a lungo e prima o poi, in un momento ben preciso, ci sarà una frattura.
Per esempio la diga del Vajont fu svuotata e riempita molte volte senza che il monte Toc vi franasse dentro e solo una volta, quella volta, il movimento dell’acqua scatenò la frana tanto famosa.
Un pugile può prendere molti pugni in faccia, anche molto forti, senza accusarne le conseguenze, quando poi ne basta uno, quello dato al momento giusto, per farlo crollare a terra senza speranza di rialzarsi.
Per secoli due zolle si spingono centimetro dopo centimetro e sopra di loro nascono e crescono città, e poi, senza che sia accaduto qualcosa di diverso dal solito, tutto cede e il terremoto abbatte tutto quello che si trova alla sua portata.
Quella notte, alle ore due del mattino di una domenica di luglio, fuso orario di Derry, una forza che aveva lavorato sotterraneamente per ventisette anni riuscì finalmente a spaccare la crosta che la imprigionava e tutto quello che su quella crosta era stato costruito crollò. Tutto avvenne contemporaneamente, ma noi lo dovremo raccontare un fatto alla volta.
Le prime avvisaglie della scossa furono dei granelli di terra che caddero giù da un basso cumulo. Era la terra che il becchino Jim Dufresne aveva accumulato sulla tomba del ben poco compianto Robert Gray. I suoi resti alquanto malridotti, per usare un eufemismo, erano stati sottoposti a una sbrigativa autopsia e poi, rigettati alla come viene viene dentro alla bara, erano stati consegnati alla madre Luella Okstetter che li aveva poi fatti inumare nel lotto di famiglia. Nessun prete aveva voluto dire qualcosa per il defunto e nessuno, a parte i becchini che avevano portato la bara, era stato vicino alla anziana donna in lacrime. La terra era stata buttata sulla bara, insieme a un cospicuo numero di sputi e poi il buon vecchio Bob Gray era stato lasciato a marcire da solo al buio.
E al terzo giorno dalla sua morte fu proprio la terra accumulata sulla sua bara che muovendosi preannunciò il terremoto che di lì a poco avrebbe sconvolto i protagonisti della nostra storia. Piccoli grumi di terra nera franarono giù lungo i bordi, un specie di frattura si formò nel monte di terra, un qualcosa di simile a un fuoco fatuo illuminò la notte sopra alla tomba. Qualcosa uscì dalla terra, un qualcosa di confuso e non ben definito, una luce che sembrava anche un’ombra, se mi passate il controsenso. Poi questo qualcosa si raddensò, prese una forma, parve cambiarla indeciso su cosa esso fosse, fino a raggrumarsi poi in una forma umana, la forma di Bob Gray. Questa cosa, perché non saprei come altro definirla, mosse dei passi incerti giù dal tumulo e sull’erba ingiallita dal sole di luglio, guardandosi intorno e tentando di capire che cosa essa fosse.
Vide il cimitero, i lumini, le lapidi ricoperte di nomi oramai staccati dalle persone che li avevano portati. Vide la notte intorno a sé e pensò di essere un vampiro. Forse lo pensò perché questo avrebbe pensato chiunque in questa situazione, forse fu una voce dentro di lei a suggerirglielo. Ma comunque fu questo quello che pensò e fu un vampiro quello che essa divenne.
Quei sentimenti inespressi che la percorrevano divennero fame, o sete di sangue, sarebbe meglio dire e la notte divenne il suo ambiente. Si mosse volando nel cimitero alla ricerca di una vittima e la trovò appena fuori dal muro di cinta. La voce dentro di lei disse alla cosa che era stata Bob Gray che quella ragazzina in piedi sotto a un lampione, un giovane prostituta romena che si vendeva per venti dollari a botta per pagarsi la dose di colla, ricordava con grande affetto un gattino di nome Bibì, e la cosa che era stata Bob Gray si trasformò subito in esso. Miagolò da dietro a un cespuglio per richiamare l’attenzione della ragazza e quest’ultima, sentendo quel miagolio, ritornò per un attimo bambina, se non nell’aspetto e nell’abbigliamento, almeno nel cuore. Questo voleva la cosa che parlava nella sua mente, perché i bambini hanno paure più genuine. Quando la ragazza si infilò tra i cespugli chiamando Bibì non fu il gattino ad apparirle davanti, ma il grosso cane che l’aveva aggredita a solo tre anni mordendole una gamba.
Inciampò per fuggire, urlò senza che nessuno la potesse sentire e si ferì le mani sui cocci di vecchie bottiglie che molte persone avevano negli anni buttato tra i cespugli al lato della strada. E fu mentre strisciava sui vetri urlando che la cosa che era stata Bob Gray la abbrancò. La morse, la succhiò, si nutrì di lei, mentre la voce dentro di lui si nutriva del suo terrore. Quando il povero corpo della ragazza fu solo una cosa quell’essere che credeva di essere un vampiro sentì la voce dentro di lui dire che era il momento di tornare a casa e afferrato il povero corpo che si stava raffreddando ai suoi piedi, volò verso il più vicino tombino.
Nessuno potrebbe descrivere il viaggio che fece nelle fogne inabissandosi verso la tana, perché non si muoveva come una cosa di questo mondo, ma cambiava forma e dimensioni a seconda del tratto di tubatura che stava percorrendo. Si mosse a velocità inaudite, trascinandosi dietro come un treno in corsa in un tunnel i topi e i pipistrelli così sfortunati da trovarsi sulla sua strada, fino a che arrivò davanti a una porta. Era una vecchia piccola porta, qualcosa dentro alla sua mente confusa gli diceva di averla già aperta una volta, e quando la toccò essa sembrò riprendere colore, tornare al suo stato naturale, mentre un segno di forma cangiante riappariva sulle assi laccate di rosso che la componevano.
Man mano che avanzava nell’enorme stanza questa si illuminava fino a rivelarsi un enorme antro dal pavimento ingombro di scheletri impolverati e ricoperti di ragnatele. In fondo, dentro a un cunicolo, la carcassa rinsecchita di un qualcosa che a Bob, o a quello che ne rimaneva, sembrò un enorme ragno. E fu allora che accadde. Il terremoto che avrebbe scosso le vite dei nostri protagonisti avvenne dentro di lui. Fu scosso dalle fondamenta stesse del suo essere e gli sembrò di somigliare a dell’acqua frizzante versata dalla bottiglia. Da ogni suo singolo poro, dagli occhi, dal naso, dalla bocca, qualcosa uscì gorgogliando e presa la forma di un ruscello di liquame andò a finire sul ragno. La luce nella stanza aumentò e Bobby vide il ragno fondersi con quel liquido denso e viscoso, riprendere vigore e forza, alzandosi infine sulle otto zampe.
Non era più un vampiro quello che guardava il ragno tornato alla vita, ma era un bambino di dieci anni, terrorizzato e affamato, sull’orlo del collasso nervoso. Il ragno sembrò ridere, la sua immagine tremolò come un riflesso sull’acqua e cambiò in quella di un clown. – Salve Bobby! – disse con un enorme sorriso irto di denti, offrendogli un mazzo di palloncini colorati – Voglio proprio ringraziarti per avermi aiutato in questi anni! – disse ridendo, ma fu allora che Bobby si accorse che non era un clown. Indossava una tuta arancione e scarpe da lavoro e lui lo conosceva.
- No! – urlò il piccolo Bobby tentando di scappare, mentre una cosa truccata da Philip Stone lo afferrava per dimostrargli tutta la sua gratitudine.

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