domenica 18 marzo 2018

Mummie.

Marina ha messo un emoticon con la faccina pensosa dicendo che lei mi aveva ispirato un racconto horror, ma forse la poverina non si ricordava di questo racconto, in cui una sua quasi omonima Martina, che lavorava, guarda te, proprio nel museo dove lavorava lei, non era meno orrorifica della archeologa cannibale di "Ostia antica" che ho pubblicato due giorni fa.
Mah, che un uomo continui a scrivere racconti su una sua amica in cui lei è un mostro crudele potrebbe forse dire molto a uno psicanalista, ma che ce ne frega a noi di quello che dicono i freudiani, per loro il calcio è una metafora della penetrazione!
Comunque, buona lettura!

Un tè con la mummia.

Claudio fece uno squillo col telefonino e aspettò che la porta si aprisse. Sentì i passi che si avvicinavano e, dopo qualche istante, il rumore della serratura che veniva fatta girare. – Salve! – gli disse Martina apparendo nel rettangolo di luce dell’interno.
- Ciao, bella. Posso entrare? –
- Benvenuto in mio museo! – disse lei in una non troppo riuscita imitazione dell’accento di Dracula nel film di Coppola.
Lui entrò e cominciarono a girare tra le sale immerse nella penombra. Lei, con una pila tascabile, gli illuminava ora una teca, ora una statua, spiegandogli che quella era una lucerna del terzo secolo, quella una famosa statua etrusca raffigurante un politico, quell’altra una ruota di un carro ritrovata nella tomba di un lucumone. – Lo sai cos’è un lucumone? – gli chiese lei.
- Un politico etrusco. – disse lui seguendola un po’ imbarazzato per quell’illegale incursione in un museo chiuso.
- Bravo. – disse lei.
- Poi ti do il diario così mi scrivi il voto, prof. – disse lui fermandosi un attimo ad ammirare un’iscrizione funeraria romana che parlava di una famiglia di liberti di età flavia. – Ma se ci beccano, a te che capita? – le chiese.
- Mi licenziano. – disse lei.
- Cazzo. – disse lui – Se vuoi torno domani. –
- Domani c’è pieno di turisti giapponesi che scattano foto. Stanotte siamo soli e puoi vedere tutto con calma. – gli rispose, poi salì su per una scala e gli disse: - L’ala egizia. –
- Devo camminare di profilo? – chiese lui.
- Battuta vecchia, che non fa onore al tuo senso dell’umorismo. – fu la risposta di Martina che poi arrivò a una vasta sala che conteneva sarcofagi di età tarda, statuette votive di piccole dimensioni – Si chiamano ur-shapti. – gli disse, vasi canopi – questi contenevano le interiora – disse ancora lei, e diverse mummie, di cui una a cui erano state tolte le bende. – guarda un po’. – disse ancora lei e, armeggiando con una chiave tirata fuori da una tasca, aprì la teca che rinchiudeva la mummia. Nell’aria si espanse un odore di spezie molto forte, tipo mercato arabo, e anche un sottostante e quasi impercettibile odore di marcio e morte.
- Ma non si rovina prendendo l’aria? –
- Prende aria dal 1846, quando l’hanno sbendata, pensi che si polverizzerà proprio stasera? – gli chiese.
- No. – disse lui accucciandosi e fissando quello scheletro ricoperto di pelle simile a cartapesta secca e logora in quei due fori bui e profondi che erano stati gli occhi. – non penso proprio. – aggiunse guardando le dita di quelle mani che da almeno tremila anni non si muovevano da quella posizione rattrappita e rapace.
- Vuoi toccarlo? –
- Posso? –
- Io non ti denuncio di certo. – disse lei e, così, Claudio allungò una mano e sfiorò l’indice di quel vecchio cadavere rinsecchito.
- Ahi! – urlò.
- Cosa c’è? – gli chiese Martina.
- ‘sto stronzo mi ha dato la scossa! – disse Claudio, poi si girò verso di lei e disse: - Signora Lo Biondo, io voglio fare regolare richiamo, la sua mummia mi ha fatto male! –
- Mi piange il cuore, Claudietto, vuoi un bacino sulla bua? –
- Ah-a! – disse lui, - che ridere, Lo Biondo, che ridere. La tua mummia è pericolosa, e qua intorno non c’è nemmeno l’attrice del film. –
- Chi? –
- Rachel We … Weiz, o Weis, non mi ricordo, quella bella moretta, sai … -
- Maniaco. Ti faccio toccare una mummia e tu pensi a un’attrice tettona. Maschi … - disse disgustata e andò verso uno stanzino sulle sinistra – Tè? – gli chiese.
- Sì, va bene. – rispose lui riaccucciandosi a guardare la mummia. Sembrava che quei fori bui lo fissassero, come se in fondo ci fosse un qualcosa di luminoso in attesa di … mah, troppi film dell’orrore, una vita sprecata a guardare filmacci da due soldi!
Lei tornò col tè fumante in mano, era stato lì a fissare quel coso schifoso per un bel po’, senza rendersene conto. Lei poggiò le due tazza su un tavolino e lui bevve un sorso. – Che cacchio di tè sarebbe, sa di … calzini usati! –
- Ha un sapore un po’ particolare, in effetti, ma dai! Calzini sporchi no! –
Lui ne bevve un altro sorso, fece una smorfia e disse: - Metà calzini sporchi e metà lenzuola dimenticate per anni in fondo all’armadio. Fa schifo, se mi permetti il francese. –
- Rozzo! È una qualità egiziana molto antica, secondo un libro sacro dà addirittura la vita eterna. – disse lei sorridendo.
Lui la guardò con uno sguardo strano, gli era parso di cogliere un qualcosa di fuori posto, come qualcosa che mancava … - E che libro sarebbe, il libro dei calzini sporchi di Ramesse II? – le chiese lambiccandosi intanto il cervello per riuscire a capire che cosa lo avesse colpito.
- Il De Vermis Mysteriis. – disse lei.
- Ah!!! Capisco. Devo averne letto un riassunto su Selezione del Reader’s digest. –
- Oggi le tue battute non sono un granché, Claudio. – disse lei finendo il suo tè.
Lui finì il suo, all’ultima sorsata faceva ancora più schifo che alla prima, e disse: - La vita eterna? E che palle, però! – e poi capì. – L’apparecchio! Ti sei tolta l’apparecchio ai denti! –
- Che occhio, Sherlock! – disse lei sorridendo, poi aggiunse: - So cosa vorresti dire, fai sempre quella battuta quando parli del mio apparecchio, ma ti giuro che se la fai me ne vado a fare il giro di ronda del museo e ti lascio qui con le mummie per un’ora e mezza. –
- Le mummie? Ne vedo una, l’elettrico scossatore che continua a fissarmi con quelle sue orbite vuote. – lo guardò di nuovo e notò che gli mancava un dito, l’anulare della mano sinistra. – Il tè era fatto col suo dito? –
- Scemo! – disse lei con uno sguardo strano, come se lui avesse detto qualcosa di sbagliato, poi si alzò e mostrò una teca che, nella penombra, lui non aveva notato. Un’altra mummia priva di bende, in una posizione che sembrava quella di uno che sia morto soffrendo come un cane, se ne stava lì sul fondo, a fissarli con i suoi occhi vuoti. – Quello che ti ha dato la scossa è Nyarlathotep, e questa è la moglie, Ashthotep. Hanno più di tremila anni. –
Claudio guardò la mummia della donna, alcuni capelli castano chiari pendevano ancora dal cuoio capelluto secco e polveroso, dei seni simili a pieghe di pelle avvizzita si intravedevano sul petto irto di costole, e disse: - Sono una bella coppia. Anche a lei manca lo stesso dito. Cos’è, un rituale? –
- Un rituale di rinascita. – disse lei.
- E comunque mi manca un po’ la tua somiglianza con Squalo. – disse lui velocemente. L’aveva sempre paragonata al personaggio del killer con i denti di acciaio dei film di 007.
- Stronzo! E ora rimani qui con le mummie. – disse lei e lo lasciò lì in quella stanza buia, insieme a Ash … sì, Bibì e Bibò, o come cacchio si chiamavano loro. Tornò a guardare la mummia della donna e gli parve che quella bocca dalle labbra disseccate come uadi del deserto stesse gridando aiuto, e quelle orbite vuote sembravano sorgenti d lacrime inaridite. Tentò di immaginarsi quella faccia secca e morta come doveva essere stata da viva, quei denti non esposti, ma ricoperti da labbra fresche e carnose. Si accucciò a guardarla mentre il dito che aveva preso la scossa cominciava a dolergli un po’, mummia maledetta, e nel buio gli parve di vedere … ma cosa c’era in bocca alla mummia di Ashtophet? Si avvicinò ancora, il dito intanto gli faceva più male, e là, nella teca buia, scorse come un piccolo scintillio, si avvicinò fino a sfiorare il vetro col naso, e intanto la mano gli faceva male fino al polso, guarda te quella scossa, e … aprì il telefonino e illuminò il viso della mummia … sulla fronte dalla pelle tesa come carta velina sull’osso, proprio sopra al sopracciglio sinistro, una piccola cicatrice … e in bocca, ora lo vedeva bene, Dio!, no! Si ricordava quella cicatrice, aveva visto quando era caduta e aveva picchiato su quello spigolo in cantiere, dieci anni prima. Le era uscito tanto sangue e il segno non era mai andato via. Una cicatrice a forma di Y, sopra al sopracciglio … e in bocca, il vecchio apparecchio, i denti di Richard Kiel che tante battute gli avevano ispirato; ma se quella mummia era … il dolore risalì dal polso al braccio e poi lo investì come un maglio sul petto. Cadde a terra e si guardò il braccio, teso da un crampo di inenarrabile potenza, con la pelle che si restringeva cambiando colore e divenendo grigia di istante in istante. Si voltò verso la mummia e ora lo vide davvero guardarlo, degli occhi illuminati da una infernale luce rossastra lo fissavano da orbite che andavano riempiendosi.
Tentò di rialzarsi, tentò di urlare, ma gli uscì solo un gemito penoso, mentre sentiva che la sua faccia si asciugava sulle ossa del teschio. Strisciò lontano dalla teca, verso l’angolo opposto della stanza, mentre quella larva usciva dalla sua casa di vetro e, ogni momento più simile a un uomo vivo, si alzava e veniva verso di lui.
- Togliamogli i vestiti, fino a che riusciamo a muovergli gli arti. – disse la voce di Martina dalla porta della stanza.
- Sì. – disse con voce rauca e polverosa il non morto che si stava riformando davanti a lui, e lo spogliarono mentre gemeva e si prosciugava di liquidi e vita. Alla fine giacque immobile, coricato su un fianco, le mani rattrappite davanti a sé, le orbite vuote e buie, cha ancora vedevano. Doveva essere indistinguibile dalla mummia che ora, rubatagli la vita, lo sovrastava e parlava con Martina. Era un uomo mediorientale, dai tratti del volto sottili, evidentemente e totalmente malvagio. Martina lo baciò e, per un attimo, apparve per quella che era dietro all’aspetto che presentava ai vivi, una donna mediorientale dai capelli neri e ricci, che non assomigliava per nulla alla sua amica. Martina era quella che giaceva, mummificata ma ancora viva e sofferente, nella teca nascosta dall’ombra.
L’uomo si vestì con i suoi vestiti, gli prese gli occhiali dal volto morto e secco e se li pose sul naso aquilino, mentre i suoi lineamenti sembravano sparire, confondersi in una specie di nebbia per diventare infine i suoi. Claudio e Martina, indistinguibili da quelli veri, se ne stavano in piedi in mezzo alla stanza, davanti al corpo prosciugato di quello che era stato Claudio. Con la coda dell’occhio vedeva la mummia che era stata la sua amica, secca e morta come lui, e in quelle orbite vuote riconobbe la sua stessa disperazione e il suo stesso orrore.
- Mettiamolo nella teca e andiamocene, ho fame. – disse Ashtophet e Nyarlathotep la aiutò a farlo.
Claudio e Martina rimasero lì, fermi, immobili, e così li continuano a fotografare i turisti giapponesi, senza capire che le loro bocche rinsecchite stanno urlando.

FINE

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