venerdì 16 marzo 2018

Ostia antica.

Ieri ho scambiato due battute con la cara amica Marina che fa l'archeologa a Ostia e, come al solito, io sono finito a parlare di roba horror come cannibalismo e simili. Sono fatto così.
Comunque, l'idea a continuato a girarmi in testa e così, oggi, ho scritto questo breve e splatterissimo racconto. Come potrete vedere il mostro del racconto si chiama proprio come la mia amica.
Buona lettura!

OSTIA
(o LA CULTURA NON SI MANGIA)

Si svegliò soffocando un grido di terrore, sapeva di non essere da sola ma in compagnia, ma l’incubo era stato troppo orrendo … i suoi figli, suo marito … ecco, già non ricordava più cosa li minacciasse, qualcosa di spaventoso, comunque, ma non lo ricordava più.
- Dormito bene, mammina cara? – le chiese col suo ghigno antipatico Giulio, che guidava la sua Audi con la sola mano destra, il gomito sinistro appoggiato sul finestrino abbassato.
- Mi ero appisolata? – chiese vergognandosi come una ladra.
- Non so, ragazzi, che dite, si era mica appisolata mamma? – chiese lui dando un minimo colpo di freno e sibilando tra i denti un’offesa alla madre del pedone che stava attraversando la strada.
- Appisolata? – chiese Marco che assomigliava a suo padre ogni giorno di più, naso adunco e fossetta sul mento comprese. Mah … sembrava un treno in corsa, da come russava. – e giù una risata a cui si unì anche Clara. Sembrava più allegra, era stata giù tutto il giorno, anche se stavano andando proprio dove aveva voluto andare (solo) lei, ma ora rideva.
- Scusate, ho dormito poco. – disse lei e Marco borbottò sotto voce qualcosa sul padre che almeno aveva potuto dormire lui, se lei russava così. Anche in quello assomigliava al padre, pensava di parlare così sottovoce da non essere udito dagli altri.
- Ecco il parco archeologico di Ostia antica e Portus. –disse Giulio leggendo l’insegna sul cancello, -Contenta, Clara? –
-Sì, pa’. – disse lei e poi si soffiò il naso.
Scesero dall’auto e, mentre prendevano gli zaini mamma si avvicinò a Clara e le disse: - Ma stai male, piccola? Stavi piangendo, prima? –
- Cosa? – disse lei stringendo le cinghie dello zainetto – È solo che … che non so se sarò in grado di … - disse, poi scosse la testa e sorridendo disse: - No, avevo qualcosa nell’occhio. – e andò verso l’entrata del parco archeologico. Dentro li aspettava una giovane donna con i capelli biondo-castani e gli occhiali da sole a cuore. Abbracciò Clara e poi diede la mano a loro due. – Salve, signori Brambilla, io sono Marina. Dovete essere fieri di vostra figlia, allo scavo didattico aperto ai liceali di due mesi fa mi ha davvero stupito. –
- Grazie. – disse lei arrossendo, perché un complimento fatto ai suoi figli per lei era sempre come se fosse stato fatto anche a lei e a Giulio. Quel piccolo complimento le fece dimenticare l’evidente bugia della figlia un attimo prima.
- Magari avesse fatto uno stage didattico in un’azienda, cazzo – borbottò Giulio al suo solito modo, odiava la passione della figlia per gli scavi e le antichità, la vedeva già disoccupata e povera. Aveva piantato un tale casino per quella ferita si era fatta al braccio allo scavo, diceva addirittura che per lui era il morso di un animale e che poteva fare infezione. Era tanto buono, ma così stupido a volte.
- Lei è una studentessa? – chiese lei a Marina.
- Oddio, no! Sono un funzionario archeologo. – disse ridendo.
- Ma se avrà sì e no 22 anni! –
- Ne ho molti di più. – disse ridendo ancora dietro ai suoi occhialoni strambi e neri, - l’archeologia, come diciamo noi, mantiene giovani. –
- Morirai di fame, ma sarai senza rughe! – disse sghignazzando Marco che la pensava un po’ come il padre.
- O no, piccolo, mangiamo un bel po’, noi archeologi, la cultura si mangia. –
Giulio arricciò il naso, era una contro-citazione di Tremonti, il suo vero e proprio idolo, come per tutti i commercialisti del mondo.
La signora Marina li accompagnò per un po’ mostrando un sacco di rovine per cui sua figlia sembrò impazzire, ma lei, dopo pochi minuti, staccò il cervello e cominciò a pensare a cosa fare per cena. A lei faceva piacere che sua figlia fosse contenta e si appassionasse, ma un muro smozzicato non le sembrava troppo diverso da ogni altro muro smozzicato che si vedeva intorno. Quello che notò, invece, fu lo sguardo di Giulio sul sedere dell’archeologa. Lo conosceva, quello sguardo, e molto bene. E, se lo conosceva bene come pensava, sapeva anche che, dopo quello sguardo che misurava al millimetro le altre donne, sarebbe arrivato … eccolo lì, si era tirato su i pantaloni tirando la pancia in dentro. Sentì una fitta al cuore, quel maledetto bastardo di suo marito … glielo aveva visto fare, paro paro, con una sua amica e poi l’aveva tradita con lei. Bastardo, lo aveva perdonato una volta, per i figli, ma un’altra volta no.
- Bene, io devo andare in ufficio, voi seguite le indicazioni sui cartelli, va bene? – disse l’archeologa sorridendo e stringendo di nuovo le loro mani, più calorosamente quella di Clara. – Ce la farai. In bocca al lupo! – le disse e poi si allontanò.
Continuarono a camminare svoltando ora a destra ora a sinistra come dicevano quei cartelli e, dopo pochi minuti, lei aveva già perso l’orientamento. E intanto i due figli parlavano, là davanti. – Guarda che quell’archeologa si è sbagliata. – disse lui alla sorella maggiore.
- Cosa? –
- Ha detto che qui avevano lavorato insieme Winckelmann e Polidori, quello che ha scritto “il Vampiro”, ma ho guardato su internet, e Winckelmann è morto nel 1768, 27 anni prima che nascesse Polidori.
- Fammi un po’ vedere. – disse lei sbalordita, ma non c’era campo. Marco cominciò a girare intorno con lo smartphone in alto, cercando una mezza tacca, ma lì non prendeva proprio.
- Ma dove siamo andati a finire, non si sentono le auto, non si vedono palazzi, solo rovine e alberi. – disse lui.
- Continuiamo a seguire i cartelli. – disse Clara. E così fecero. A lei, però, sembrava che si fossero spostati in un altro posto, in un altro tempo, quasi, e effettivamente intorno a sé non vedeva nulla di nuovo, di vivo, solo rovine e pini che oscillavano al vento.
- Cosa ha detto che è ‘sto pietrisco. – disse Giulio accucciandosi un attimo e passandosi tra le dita quelle pietruzze bianche che formavano il fondo del sentiero che passava tra le rovine.
- Ossa. Ossa di animali del mattatoio. – disse Clara.
- Ci sono anche i denti. – disse lui esaminando un sassolino brillante. Questo sembrerebbe umano. Strano modo di fare il pietrisco. -
E continuarono a camminare, mentre il sole scendeva a occidente e il cielo imbruniva a oriente. Le ombre erano più lunghe e lei cominciava ad essere stanca e ad avere fame. Stava per dire … no, lo disse prima Marco. – Ma quando si arriva alla fine del percorso, cazzo! –
- Non dire parolacce, animale. – disse Giulio, poi guardò la figlia e disse: - Quando cazzo finisce ‘sto percorso? –
- Non lo so. – disse Clara. - Andiamo ancora avanti e vediamo il prossimo cartello. – e fecero così. Diceva: a sinistra la domus dei misteri, a destra gli Horrea.
- Un cartello con su scritto “uscita”, no? – disse il padre.
Continuarono a camminare, e ora stava davvero diventando buio. C’era fresco, era buio e stavano arrivando le zanzare. Il sentierino bianco, erano ossa pensò con orrore, continuava a serpeggiare tra muri in rovina e alberi, ma ormai nessuno di loro sapeva dove fossero. Alla fine Giulio disse: - Voi rimanete qua, io vado a vedere da quella parte, penso che siamo arrivati da lì. – e si allontanò verso una macchia di pini. Lo aspettarono per un po’, il cielo anche a occidente stava passando dal rosa al grigio, e alla fine, dopo forse venti minuti, anche lei lo seguì. – Stai attenta a tuo fratello, Clara. – le disse e cominciò a camminare verso i pini. Odiava quel posto, camminare su ossa sbriciolate, in mezzo a case dove avevano abitato persone morte da millenni, col buio, e non riusciva a smettere di pensare a quel bastardo di suo marito che guardava il culo dell’archeologa. Non sapeva perché, e si sentiva stupido a farlo, ma continuava a pensare che si fossero appartati da qualche parte. Fremeva dalla rabbia, ed era arrabbiata per non aver paura, forse, perché … non voleva essere lì, davvero, qualunque altro posto sarebbe stato meglio che lì.
Si infilò nella macchia d’ombra scura come l’inchiostro che stagnava sotto ai pini e si ritrovò in una specie di radura illuminata dai raggi della recente luna e, in quella luce irreale che disegnava tutto come in un disegno a china, vide il marito. Coricato a terra, con quella maledetta archeologa che gli stava facendo un … non poteva crederci, lei e i loro due figli a tremare dalla paura e dal freddo e lui se ne stava lì, come un quindicenne infoiato, a farsi fare un pompino da una tizia appena incontrata. Accelerò il passo stringendo i pugni, mentre lei continuava ad andare su e giù con la testa, porca schifosa e puttana che non era altro, quando … lui si girò verso di lei. Non stava godendo, no, la sua era una maschera di terrore e sofferenza infiniti, la maschera della morte. – Via! – le disse senza emettere un suono – Scappa con i bambini! – le disse ancora, le lacrime che gli scendevano dagli occhi sulle guance scavate. E fu allora che l’archeologa alzò la faccia verso di lei. Imbrattata del sangue del marito, stretta in bocca … sì, teneva in bocca una parte dell’intestino lacerato di lui e gli occhi … ora li vedeva, senza gli occhiali da sole vedeva quegli occhi verdi e luminosi nel buio, quelli di una belva. Le sorrise con quelle zanne e poi affondò di nuovo il suo muso nelle viscere di Giulio.
Dopo qualche istante di terrore paralizzante, negli incubi non si riesce a scappare, pensò, si voltò e corse via. Corse come non faceva da forse 35 anni, come solo i bambini sanno fare, senza sfiorare il terreno, corse verso i suoi figli capendo perché aveva detto che gli archeologi mangiano, capiva bene perché Winckelmann aveva potuto lavorare con uno 30 anni e passa dopo la sua morte, capiva perché l’archeologa sembrava così giovane, e capiva di chi erano quelle ossa sbriciolate.
Corse nel buio verso i suoi figli, e ripensando alla scena di quella … quella cosa che sbranava Giulio, oddio!, ripensò al braccio di quell’essere. Aveva una cicatrice, appena sotto al polso, proprio dove Clara si era fatta male allo scavo … per me è un morso, aveva detto Giulio, Giulio che ora era … no! No! No!
Gridò ai figli di scappare, gridò con tutta l’aria che aveva nei polmoni, e le sue grida echeggiarono inutilmente tra quei pini persi nel nulla della campagna. E poi le nuvole si aprirono e, all’improvviso, la luna illumino Clara e Marco davanti a lei. Clara stava mangiando il collo di suo fratello, che giaceva morto a terra. Si voltò verso di lei, quella che era stata sua figlia, e, gli occhi come due fiamme verdi, le disse: - Ora sono un’archeologa anch’io, mamma. –

Fine.

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