venerdì 15 marzo 2024

L'ombra strisciante di Ostia

 Scrivi, Scrivi! mi ha detto la mia cara amica quando ho abbozzato un racconto horror basato su un suo post di Facebook. Ecco, ho scritto. 

Buona lettura!

L’OMBRA STRISCIANTE DI OSTIA


Avrebbe potuto dire che lui il tramonto se lo sentiva nelle ossa, se avesse avuto l’occasione di parlare con qualcuno. Erano 1900 anni che non lo faceva, però. Se si ricordava bene era morto lì, a Ostia, in un modo abbastanza banale, ammazzato da un ladro mentre tornava a casa di notte dopo aver lavorato, ma in effetti non se lo ricordava più quasi per niente.

Era morto di notte, sì, nel buio di un vicolo, ed era successo qualcosa, qualcosa che non aveva mai capito. Era divenuto tutt'uno con quel buio, aveva smesso di essere un umano ed era diventato un’ombra. Un'ombra che si muoveva tra le altre ombre, un’ombra disincarnata e famelica che si ingozzava di topi e insetti nelle fogne, che strisciava sugli alberi al calar della notte, uccidendo gli uccellini nei nidi, un’ombra strisciante che inseguiva le serpi nelle torride notti estive prosciugandole della loro gelida vita.

E, ogni tanto, forse una decina di volte nell’ultimo millennio, gli capitava di afferrare la preda perfetta, un uomo perso nel buio. La vita di un uomo era miele nella sua tenebrosa gola, era pensiero, era coscienza, era ... vita. Era anche dolore, tristezza, rimpianto, orrore per quello che era stato e non era più, ma la vita di un uomo era come esistere di nuovo.

Sentì il tramonto nelle sue vecchie ossa sbriciolate ammonticchiate nel fango indurito dentro alle fogne, sentì il buio lievitare tutto intorno a lui, strisciò, incorporeo e affamato, su per gli antichi mattoni ricoperti di alghe brunite, strisciò nell’ombra dei fili d’erba nascondendosi nella macchia di buio formata da un muro sbreccato. Il sole calava velocemente e le ombre si allungavano sul mondo. Lui si allungava nelle ombre, cresceva in esse. Formiche, scarabei, lucertole, un piccolo topo, li svuotò della vita sentendosi rinvigorito. L'ombra del mattone più alto arrivò a toccare quella del pino che svettava lì vicino, saltò da una all’altra, si incuneò negli abissi di buio che colmavano gli spazi tra gli antichi basoli su cui aveva camminato, spesso incespicando, durante la sua remota vita di un tempo dimenticato.

Il sole era ormai seminascosto dagli alberi a ponente, la luce era rosata e tutto sembrava come ovattato, lui stava recuperando spessore nell’aria sempre più scura, passava da un’ombra all’altra divorando piccole vite quando ... una voce? Una voce umana? Passi, i rumorosi passi di una donna, la conosceva, passava tutti i giorni sopra di lui mentre cominciava a svegliarsi, una giovane donna. La vita di una donna, una vita umana! Si acquattò nella nera ombra di un vaso che aveva contenuto vino, aderì alle sue forme e la guardò. La luce rossa del tramonto la accarezzava mentre, allegra e leggera, camminava quasi saltando sui basoli della strada. Sarebbe stato così facile, dei dell’Olimpo, strisciare nelle ombre sul terreno, aspettare che passasse sotto a quel pino maestoso, risalire sulla sua gamba ricoperta da un pantalone da barbaro e ... saltava, anzi, no... ballava. Quella donna ballava e ora, sì, ora si era messa a cantare. Aveva nelle orecchie dei fili, sapeva che dovevano servire a sentire musica e così, al suono di una musica che solo lei poteva sentire, ballava e cantava, felice e ignara, godendosi la luce del tramonto che dipingeva di rosa il mondo intorno a lei.

Si sollevò a guardarla nel buio di un muro, ombra nascosta nelle ombre, guardando quella figura sottile che, convinta di essere sola, cantava stonando e ridendo. “Non più andrai farfallone amoroso...“ e fece una piroetta “notte e giorno, d’intorno girando...” e qui fece un’altra piroetta per girare col povero... Cherubino? Come sapeva che era Cherubino il farfallone? “Delle belle turbando il riposo, Narcisetto, Adoncino d’amor...” e anche lui sapeva che era un’aria, che era divertente, e, come lei, rise per il destino del povero Cherubino. La stava toccando, l’ombra aveva raggiunto le gambe di lei e lui si stava nutrendo, ma non della sua vita, no... della sua felicità. “Non più avrai questi bei pennacchini,” e fu allora che ricordò; Flavia, la sua Flavia, anche lei ballava e cantava, e lui la ammirava nella sua gioia, l’amore perduto nei millenni, Flavia per cui batteva il suo cuore, quando ancora lo aveva. Si ritirò nelle ombre, colmo di felicità e di dolore, disperato per quello che non aveva più, grato a quella ragazza stonata per quello che gli aveva dato, piangendo la sua vita perduta.

La giovane donna continuò a cantare e a ballare, percorrendo l’antica strada, mentre l’ombra, che era stata un uomo, ricordava l’amore e la felicità. Aveva ancora fame, ma prima o poi sarebbe passato un gatto, ma non subito, nascosto nell’ombra avrebbe continuato a piangere e a piroettare cantando un’aria spensierata che lo riempiva di gioia e tristezza.

                                                                                                           FINE