martedì 8 ottobre 2024

Vivere e morire a Coruscant. (Episodio I).

 Ormai ci ho preso gusto, sono alla terza fanfiction starwarsiana, e in questo caso è un noir con protagonisti il Capitano Rex e la senatrice Riyo Chuchi, nel terzo anno dalla Fondazione dell'Impero (16 prima della battaglia di Yavin, per i fedeli della Forza).

Ho cominciato a scrivere questa storia avendo in mente praticamente solo le prime righe e i due protagonisti, ma, devo ammetterlo, mi sono letteralmente innamorato di loro. Scrivere le loro avventure mi ha tenuto compagnia per una decina di giorni e, già, mi mancano.

E ora, vi lascio al primo episodio, primo di cinque, penso, con la nostra bella senatrice dalla pelle blu che ha un risveglio orribile e una proseguimento di giornata ancora peggiore. 

Buona lettura!


Vivere e morire a Coruscant

 

 

Fu un risveglio improvviso. Stava per vomitare, scese dal letto e, scivolando sul pavimento, riuscì ad entrare nel bagno picchiando violentemente col fianco contro lo stipite della porta. Si accucciò sul water dando una fortissima ginocchiata e vomitò. Non pensava di aver mai sentito un sapore peggiore in vita sua, ma quando rigettò per una seconda e una terza volta fu ancora peggio. Finalmente le parve che la nausea si stesse attenuando e poté così rendersi conto del dolore agli addominali, contratti per lo sforzo, della gola bruciante e della testa, che sembrava letteralmente sul punto di esplodere per il dolore.

Appoggiò il braccio destro sul bordo del water e vi appoggiò la fronte, ansimando. Stava male come poche volte in vita sua, e non c’era parte del corpo che le dolesse. E come caspita aveva fatto a ubriacarsi così? Lei era praticamente astemia fin dagli anni dell’accademia su Pantora. Aprì gli occhi e vide i suoi lunghi capelli violetti che andavano a insozzarsi nel fondo del gabinetto impiastrato dal suo vomito. Si alzò tentando di ridere della sua goffaggine, ma fu terrorizzata dalla scoperta di non essere nel bagno del suo appartamento. Non era nemmeno nel bagno del suo ufficio in Senato, anzi, le sembrava il bagno di una bettola da pochi crediti. Andò con passo incerto al lavabo e si guardò allo specchio. Il volto stravolto di una pantorana con i postumi di una sbornia spaventosa, il trucco sfatto sulla pelle di un azzurro che tendeva al grigio/verdastro e il rossetto sbavato, gli occhi … le pupille erano così dilatate da cancellare quasi le sue iridi dorate. Ma si era anche fatta di spezia? Una volta aveva visto occhi simili, erano quelli di un fumatore di deathstick, e lei non aveva mai e poi mai fumato quella robaccia. Alzò una mano per togliersi un ciuffo di capelli dalla fronte e, vedendo la sua mano, saltò all’indietro così improvvisamente da cadere. Scivolò e picchiò nella parete con schiena e nuca. La sua mano era imbrattata di sangue. Guardò i suoi piedi e capì che quella scivolata mentre correva in bagno, di cui non si era quasi accorta, era dovuta a del sangue su cui era passata. Una pozza di sangue.

Si alzò a fatica, le campane del palazzo reale di Pantora a risuonarle tra le tempie, vedendo con orrore che non indossava nulla. Si guardò tra le gambe e scoprì con orrore di essere schifosamente impiastricciata, cosa diavolo le avevano fatto? Si fece coraggio e tornò nella stanza. Una men che dozzinale stanza da motel, letto, comodino, un armadio da due soldi. Sul letto, immobile, un uomo sfigurato a coltellate, nudo. Accanto al corpo, sulle lenzuola inzuppate di un sangue già quasi raggrumato, un coltello.

Si coprì il volto con le mani e pensò che avrebbe urlato, ma le uscì solo una specie di rantolio ansimante.  Si avvicinò all’uomo e gli girò il volto. Un clone. Contava forse quindici coltellate, e la sua mano, lorda di sangue, aveva anche qualche taglio sulle dita, come quando si maneggia una lama ormai viscida.

Sentì una voce che continuava a ripetere ossessivamente «No! No! No!» e solo dopo un bel po’ si rese conto che era la sua voce. Voleva lavarsi, voleva fuggire e dimenticare, ma … avrebbe dovuto chiamare la polizia, sì, le guardie della capitale, era suo dovere…

E fu in quel momento che la porta fu sfondata e, prima che potesse reagire in alcun modo, degli stormtrooper le furono addosso buttandola a terra e poggiandole un ginocchio sulla schiena mentre la ammanettavano. La rimisero in piedi con violenza e lei pensava che era nuda e non poteva nemmeno coprirsi con le mani, e tutti quegli uomini la spingevano qua e là come un oggetto, e guardavano quell’orrore sul letto, e poi la guardavano commentando il sangue, e andavano avanti e indietro, uno, dieci, venti, non sapeva più quanti fossero, e lei aspettava solo di svegliarsi da quell’incubo, ma l’incubo non finiva, Si concentrò su un suo piede, era finito sul sangue sgocciolato dalle coperte inzuppate, guardò le sue dita blu con le unghie dipinte con un vezzoso smalto verde, appoggiate in quella pozza di sangue rosso cupo, e si sforzò di guardare solo quello, mentre uomini sconosciuti le passavano accanto prendendole le braccia, le mani, la rigiravano con malagrazia per controllare il sangue e se ci fossero ferite, e poi uno la guardò e disse al vicino «La troia pare non aver gradito troppo la scopata col suo caro clone.» e l’altro rise come un animale sotto al suo casco bianco.

Si rese conto di singhiozzare incessantemente, fino a che le si fece di fronte un ometto più basso di lei, divisa da imperiale dell’IDF, con i capelli neri impomatati e un ridicolo monocolo sull’occhio, che la guardò con severità e, solo dopo un bel po’, prese una coperta e gliela poggiò sulle spalle facendo in modo che i lembi, incrociandosi, ricoprissero le sue nudità esposte. Lei alzò lo sguardò e fissò il ridicolo ometto tentando di smettere di singhiozzare, deglutendo e raddrizzandosi, finché lui le disse: «Senatrice Riyo Chuchi, la dichiaro in arresto per omicidio.»  e fu allore che la portarono via.

La trascinarono per strada, a piedi nudi e con indosso solo una ruvida coperta svolazzante, in quello che sembrava uno dei livelli inferiori di Coruscant, arrivarono a una navicella militare e, con molta rudezza, la fecero sedere ammanettandole le mani ad un anello che spuntava dal sedile tra le sue ginocchia. L’ometto in divisa e i soldati parlavano tranquillamente mentre lei tentava senza troppo successo di tenere chiusa la coperta. Poi, arrivati alla caserma sul livello superiore, la fecero scendere e la trascinarono per un braccio fino ad una stanza dove fu ammanettata ad un tavolo. Mentre stava lì a tremare dal freddo, con la testa che continuava a dolerle da impazzire e un bisogno sempre più impellente di orinare, venne una donna in divisa da infermiera che le prelevò del sangue dal polso. Non le chiese nemmeno il permesso, la ignorò totalmente.

Dopo un bel po’, non aveva modo di sapere quanto, entrò nella stanza l’ometto insieme a due soldati armati che si posizionarono ai lati della porta, dietro alle sue spalle. L’ometto si sedette e cominciò a sfogliare un tablet annuendo, ingrandendo immagini, borbottando, il tutto senza degnarla della minima attenzione. Poi, senza alzare lo sguardo, le chiese: «Lei è Chuchi Riyo, nata a Pantora 32 anni fa?» e quando lei rispose di sì digitò qualcosa sul tablet e ricominciò a sfogliare svogliatamente ignorandola.

«Ho bisogno di andare in bagno.» disse lei con uno sforzo di volontà inaudito.

L’uomo alzò un attimo gli occhi e le disse a bassa voce: «Tra un attimo.» e ricominciò a leggere. Lei ormai non ce la faceva più, tremava e si sentiva male, stava ingobbita e le veniva da piangere. «Io devo andare in bagno, adesso!» disse.

«Abbassi la voce, Chuchi. Andrà in bagno quando potrà andare in bagno.» le disse con noncuranza.

«Senatrice Chuchi.» disse lei alzando la testa.

«Non mi risulta.» disse l’uomo continuando a leggere il tablet.

«Sono la senatrice di Pantora Riyo Chuchi e io ho dei diritti!» disse alzando la voce.

L’ometto sorrise con uno sguardo cattivo e fece un cenno a uno dei soldati che le staccò le manette dall’anello imbullonato sul tavolo. L’agente ISB le porse il tablet e le disse: «Legga qui.»

Lei, così in preda all’ira da non sentire quasi più lo stimolo a orinare o il mal di testa, lesse l’articolo 7 del regolamento del Senato dell’Impero Galattico. “I senatori sono tenuti a comportarsi con dignità e onore.” Lesse. «Sì, e allora?» chiese all’ometto con voce alterata.

L’uomo le sorrise di nuovo e disse: «Abuso di sostanze stupefacenti e prostituzione, Chuchi, lei non è più una senatrice. Lei non ha diritti se non quelli che le concederò io.»

«Come si permette! Io non sono una drogata! Io non sono una prostituta!» urlò alzandosi anche se questo fece cadere la coperta dalle sue spalle. Si sedette tentando di rimettersi addosso quello straccio per coprirsi anche se con le manette era quasi impossibile.

L’ometto rise e le mostrò di nuovo il tablet, erano le sue analisi del sangue. «Abuso di spezia raffinata, detta “deathstick”. È un reato di seconda classe, dieci anni di lavori forzati.»

«Io non …»

«E poi …» disse l’uomo con una finta aria di circostanza accendendo l’oloproiettore. «Guardi un po’, forse avrebbe dovuto fare attenzione alle telecamere nel bar, sono anche nei bagni.»

Lei guardò quelle immagini azzurrine, tremende nella loro fredda tridimensionalità. Lei, innegabilmente lei, in un bar. Stava bevendo un alcolico e parlava con un clone. Poi si alzavano e andavano in bagno, dove lei … lei faceva … e poi lui le dava dei crediti. «Mi permetta di andare avanti veloce, saltiamo i preliminari al bancone.» e le mostrò una sequenza di immagini dai bagni, lei con cloni sempre diversi, lei in ginocchio che … e si inginocchiò vomitando schiuma acida sul pavimento.

«Spero che usasse un buon coluttorio.» disse sarcasticamente l’ometto. «Prostituzione, altro reato di seconda classe. Fanno 25 anni di lavori forzati, Chuchi.»

Lei si rialzò a fatica senza che nessuno l’aiutasse, con l’odore acre del suo vomito a riempire la stanza. L’oloproiettore continuava a proiettare immagini di lei che praticava fellatio a vari cloni, a ripetizione. «L’esame del suo vomito nel bagno del motel ha confermato la cosa, naturalmente.»

«Io non …» disse di nuovo lei, incapace di continuare, mentre quelle degradanti immagini andavano avanti, e avanti, e avanti. «Io non …»

L’ometto la guardò sorridendo e le disse, con voce calma e amichevole: «Vede Chuchi, avrei una domanda per lei. Ne abbiamo discusso con i miei uomini e non ce l’abbiamo fatta a giungere ad una conclusione. Può aiutarmi?»

Lei controvoglia annuì.

«Bene. Io ho detto ai miei uomini che lei poteva soddisfare solo tre cloni alla volta, ma i miei uomini mi hanno detto che sono troppo ingenuo e che lei, con quelle belle tette, può soddisfarne anche sei alla volta, capisce? Mi sfugge un po’ la logistica, ma, mi dica, tre, cinque o sei? Quanti alla volta?»

Lei scattò ruggendo e gli saltò addosso tempestandolo di pugni con le mani ammanettate, nuda su di lui, incapace di fermarsi.

Una botta col calcio di un blaster in mezzo alla schiena la fece stramazzare a terra. Mentre, coricata su un fianco e incapace di respirare, si orinava addosso, l’ometto si aggiustò i capelli impomatati e le disse: «E questa è aggressione a un pubblico ufficiale. Ergastolo, Riyo, ti sei appena guadagnata l’ergastolo ai lavori forzati nella colonia penale di Narkina.» e rise.

«Bastardo!» disse lei piangendo.

«Può essere.» e poi, ai soldati: «Portatela in cella e lasciatele quella coperta, magari ci risparmia tanta fatica e ci si impicca.» disse, e poi, rivolto a lei: «O magari si fa furba e ci racconta tutto sulla ridicola Ribellione di cui fa parte e si risparmia qualche decennio di carcere.» e i soldati la trascinarono via.

I due soldati in armatura bianca la trascinavano stringendole le braccia con forza, mentre lei, goffamente, tentava di coprirsi con la coperta. Girarono per almeno cinque corridoi, senza fermarsi mai, poi arrivarono davanti a una porta che uno dei due aprì con il suo cilindro personale.

«Ci penso io.» disse con voce roca e gutturale uno dei due e l’altro se ne andò; il soldato la trascinò dentro ignorando il fatto che lei aveva incespicato sui tre gradini, poi la gettò sulla branda con malagrazia e le gettò addosso la coperta. Lei si raggomitolò su sé stessa mentre lui usciva e la porta si chiudeva.

Era terrorizzata, era esausta, era disgustata dalla vita, ed era sorpresa da quello che lui aveva fatto gettandola sul letto. Le aveva messo in mano qualcosa di piccolo e duro, due oggetti. Raggomitolata sotto alla coperta, in posizione fetale, guardò nel palmo della sua mano. Una compressa di colore giallo e un auricolare. Si infilò l’auricolare e aspettò di sentire qualcosa. Solo un lieve ronzio, quindi l’aggeggio era acceso. Provò a fare un piccolo colpo di tosse, un suono normale per chi la stesse spiando.

Si sentì un ronzio più forte, poi un clic e poi una voce conosciuta, la voce del suo caro amico Rex.  «Per prima cosa non parli, la ascoltano.» disse il capitano che ora lavorava per la Ribellione «Non parli e non si muova, la spiano e la ascoltano. Se mi sente muova il piede sinistro.»

Lei fece finta di stiracchiarsi e mosse il piede sinistro che sporgeva da sotto alla coperta.

«Bene, Senatrice, ottimo.» disse quella cara voce, il primo momento di normalità da quando si era svegliata. «Mi ascolti in silenzio. Ero venuto su Coruscant per indagare su dei fatti strani riguardanti i cloni e i nostri alleati, e stavo cercando lei pensando che potesse essere in pericolo, ma, purtroppo, sono arrivato tardi. Se mi ha capito si gratti la testa con la mano destra.»

Lei si grattò i capelli arruffati e luridi.

«Dovrò spiegarle in fretta, la spiano e potrebbero venire a riprenderla per un nuovo interrogatorio, molto più duro, quindi mi ascolti. Non l’hanno accusata per l’omicidio del clone perché non vogliono condannarla a morte, lei gli serve viva, per farla parlare dei suoi alleati in Senato e fuori.

Se la portano via da qui, a Narkina o in qualunque altra loro prigione, io non potrò aiutarla, ma qui ho degli agganci.

Se vuole scappare, io posso aiutarla, ma non sarà divertente.

Lei vuole scappare? Se sì muova il piede, se no si gratti la testa.»

Scappare voleva dire non essere più la senatrice, non poter contattare mamma e papà su Pantora, fuggire per sempre, ma … l’ergastolo ai lavori forzati e degli interrogatori da parte dell’ISB per farla parlare dei suoi contatti … no, era peggio.

Mosse di nuovo il piede, come per liberarsi da un crampo.

«Benissimo.

Ascolti bene, perché i tempi sono stretti. Le hanno lasciato la coperta e le hanno accennato all’usarla per impiccarsi perché è un metodo di tortura psicologica, sperano che lo faccia per poi salvarla e farla ritrovare nella stessa situazione. Ma lei è sotto l’effetto di droghe, è sotto shock ed è stata picchiata alla schiena. Se lei morisse d’infarto tentando di impiccarsi non troverebbero strana la cosa.»

Lei si grattò la testa due volte.

«Tranquilla, Senatrice, tranquilla.» disse lui con voce calma, «Più si muove, più rischiano di notarla.

La pillola che le ho dato ferma quasi del tutto il cuore, tre minuti dopo che la si è messa sotto alla lingua. Se lei prende la pillola e poi arrotola la coperta e si appende con quella alla maniglia della porta, loro dovrebbero lasciarla appesa per circa un minuto e, quando entreranno per staccarla dalla porta, il suo cuore sembrerà bloccarsi.

Come le ho detto, la cosa sembrerà loro plausibile e il suo corpo verrà mandato all’inceneritore dove io e un mio uomo potremo prelevarla.

Mi ha capito? Muova il piede se sì.»

Lei mosse il piede, come se un prurito improvviso l’avesse colpita vicino all’alluce.

«Non abbiamo tanto tempo, Senatrice, il mio uomo finisce il turno tra un’ora e mezza, stiamo già stretti così. So di chiederle tanto, ma è l’unico modo che ho per tirarla fuori di qui.»

Lei stava pensando, tecniche di interrogatorio, modi di spezzarla, di farla crollare. Quanti cloni avevano una voce che poteva sembrare quella di Rex? Chi la assicurava che quello non era solo un soldato che si stava divertendo alle sue spalle? Come faceva a fidarsi di chi le diceva di prendere una pillola e impiccarsi?

«Senatrice! Io capisco che abbia paura, capisco che non riesca a capire se può fidarsi, ma io sono Rex. Io mi ricordo quando su quel pianeta ghiacciato piantò la lancia in terra e pose fine a una guerra, mi ricordo le parole che il Generale Obi Wan le disse sulla pace. Io sono Rex, che l’ha salvata in quel magazzino dopo che le sue due guardie erano state uccise.

Senatrice Chuchi, Riyo, Se non agiamo adesso non potrò più salvarti.

Se vuoi farlo, grattati la testa.»

Lei inspirò e si grattò la testa.

«Bene.» disse lui evidentemente sollevato «Ora ascoltami. Non puoi farti trovare con l’auricolare e non puoi lasciarlo nella cella. Devi ingoiarlo. Dopo averlo ingoiato metti la pillola sotto la lingua e comincia a contare. Quando arrivi a 40 ti alzi e cominci ad arrotolare la coperta, vai alla porta e la annodi alla maniglia e te la passi al collo. A 90 devi sederti e lasciare che la corda ti stringa il collo, anche se ti fa male, anche se non respiri. Loro non ti lasceranno appesa più di un minuto, entreranno e ti staccheranno dalla maniglia, ti daranno forse dell’ossigeno e allora il tuo cuore si fermerà.

Hai capito tutto? Se sì piega le dita del piede sinistro.»

Lei piegò le dita.

«Bene, Riyo, ingoia l’auricolare e comincia.

Ci vediamo dall’altra parte!»

Riyo Chuchi, 32 anni, senatrice della Repubblica, senatrice dell’Impero, oppositrice dell’Imperatore, arrestata per abuso di droga, prostituzione, omicidio, si tolse la minuscola auricolare e la ingoiò con un piccolo sforzo, sentendo dolore alla gola spellata dai conati di vomito. Poi, sempre muovendosi il meno possibile sotto alla coperta, si posizionò la piccola pillola sotto alla lingua. Era amara, molto amara, e pizzicava un po’. Si sedette sul letto, avvolgendosi nella coperta, stando bene attenta a non guardare in alto dove doveva esserci la telecamera da cui loro e Rex la guardavano. 31, 32, 33, 34, che giornata di merda! 38, 39, 40, si tolse la coperta di dosso e cominciò ad arrotolarla. 45, 46, 47, guardò la porta e fece un piccolo cappio ad un capo della corda improvvisata, camminò per la stanza, tentando di ignorare che anche in questo momento molti occhi stavano spiando la sua nudità, mise il cappio alla maniglia e ne fece un altro, a non più di dieci centimetri di distanza. Sì, andava bene. 85, 86, 87, inspirò e si infilò il cappio al collo, poi si sedette e lasciò che le si stringesse alla gola togliendole il respiro.

Resistendo alla tentazione di toglierselo ripensò di nuovo a quanti milioni di cloni avessero la voce del suo amico in tutta la Galassia, poi si accorse che il campo visivo le si stava stringendo e non poté fare a meno di afferrare il cappio con le mani, ma era troppo stretto. Scalciava sul pavimento lasciando tracce di sangue quasi secco, mentre tutto diventava buio e lei si sentiva morire. Si era fidata e aveva sbagliato, che stupida!

Si accorse appena della porta che si apriva, il suo corpo la bloccava, la spinsero, le tolsero il cappio dal collo con enorme fatica e uno di loro arrivò con una piccola bombola, ma, in quel momento, sentì una fitta raggelante al petto. Boccheggiò portandosi le mani all’altezza del cuore e le parve di spegnersi.

Dissolvenza, buio, niente.


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