giovedì 28 maggio 2015

Berserker. 7

Prima parte del nuovo capitolo, per ora sola soletta. spero di andare avanti a scrivere.

La sera prima, mentre poltriva nel letto alla luce di una candela massaggiandosi i suoi nuovi calli sul palmo delle mani, aveva pensato che quella era senza dubbio la quiete prima della tempesta.
Il 10 settembre era partito da Genova e col treno era arrivato più nell’interno che poteva, poi aveva preso una corriera e infine era arrivato fin lì a piedi. In paese lo avevano accolto bene, erano già arrivati prima di lui altri ragazzi fuggiti dalla città e altri ne erano arrivati dopo. In definitiva, dopo un mese e mezzo, in quel paesino di sì e no centotrenta abitanti, c’erano nascosti in bella vista una ventina di sedicenti partigiani. Erano fuggiti per non essere arruolati nella Repubblica di Salò, erano fuggiti perché oppositori politici, erano fuggiti per desiderio di avventura, ma fino ad allora, fino a quel 20 ottobre, l’unica cosa che avevano trovato era stata una pace irreale ma ristorante, tra gente pacifica e ospitale che li aveva accettati; forse li avevano accettati perché quasi tutti i giovani erano via, in guerra o prigionieri di Inglesi o Russi e una quarantina di braccia di giovanotti facevano molto comodo nei campi, ma comunque li avevano accolti.
Lui viveva in casa del Bartolo, un vecchio con tre denti in bocca che beveva mirabolanti quantità di vino finendo per cantare canzoni di inarrivabile volgarità ogni sera che veniva in terra. Il figlio di Bartolo era stato catturato a El Alamein nel ’42 e qualche volta ce l’aveva fatta a scrivere al padre per dirgli, misericordiosamente, che stava bene e che lo trattavano ancora meglio. Bugie pietose, si capiva, in un campo di prigionia nel Corno d’Africa … trattato bene? Ma va’!, ma il vecchio ci credeva, o voleva crederci, e lui di certo non lo avrebbe disilluso. Comunque mentre il buon caporale Bacigalupo faceva le sabbiature a spese di sua Maestà Giorgio VI Ettore dormiva nella sua stanza e faceva il suo lavoro nei campi, nel bosco e tra i filari di vite appollaiati lassù sul costone della montagna che sovrastava il paese.
Comunque, pensava la sera prima dopo essere andato a letto con le galline così stanco da non riuscire nemmeno a leggere un paio di pagine del suo adorato “La linea d’ombra”, quella era una quiete irreale. Erano scappati dai fascisti fin lassù, erano scappati dalla guerra in quei pochissimi giorni in cui si era bloccata, ma prima o poi, senza dubbio molto più prima che poi, la guerra li avrebbe raggiunti. E si era addormentato godendosi la pace di quel momento di tregua.
E quella mattina, alle dieci e mezza, in piedi su un costone di roccia e intento ad impilare ciocchi di legno sulla schiena di un povero mulo che era stato chiamato Adolf da Bartolo perché dargli una legnata fosse almeno un po’ divertente, Ettore vide arrivare la tempesta che avrebbe ammazzato la quiete. Mentre andava via, quella noiosa quiete, la rimpiangeva già. Dieci camion tedeschi, alcune moto con sidecar, un paio di fuoristrada. Un’ottantina di soldati, più o meno, e dei prigionieri, se non vedeva male. E, malgrado grazie alla sua miopia si fosse risparmiato l’arruolamento e la guerra, con addosso i suoi occhiali non vedeva affatto male. Vicino a lui c’era un cavo d’acciaio che stava appeso tra il monte e la piazza del paese, una funivia che nessuno usava mai perché erano più comodi i muli. Prese il ciocco di legno che avevano tinto appositamente di rosso, lo agganciò al cavo e lo spinse giù. Sarebbe arrivato in fondo almeno un’ora prima dei crucchi, e solo una quarantina di minuti prima di lui, se si sbrigava a scendere.
Salutò Bartolo che lo abbracciò singhiozzando e corse giù per il sentiero di pietre allisciate dal passaggio di generazioni millenarie di contadini e boscaioli. Aveva poco tempo per prendere le sue cose, qualche abito, un paio di coperte, due o tre libri e il fucile da caccia di papà. E poi sarebbe tornato su, verso quelle capanne che se ne stavano sul monte in un altopiano stretto e lungo che nella maggior parte dei casi era nascosto dalle nuvole basse. Lì sarebbe cominciata la vera lotta della loro Resistenza.
Non dirò che scese correndo tanto da rischiare l’osso del collo, ma poco ci mancava; arrivò in trentotto minuti, era un record rispetto alle volte che l’aveva fatta velocemente come prova, e così aveva un paio di minuti in più. Sembra poco, sì, ma è la differenza tra uscire di corsa e dare un’ultima occhiata alla propria ex stanza per accorgersi di aver lasciato sul comodino la custodia degli occhiali.
Comunque tutti gli altri ragazzi erano già partiti, per andare alla pianetta si saliva da un’altra parte e quindi non li aveva incontrati, e lui doveva essere l’ultimo. E, se non si fosse sbrigato, sarebbe stato anche il primo a finire tra le grinfie dei Crucchi. Maledetti Crucchi, quanto li odiava. Entrò in casa del Bartolo, prese lo zaino da montagna di papà, lo riempì con le sue, poche, cose e respirò per l’ultima volta l’odore di una casa. Lassù, a trovare posto, avrebbe avuto per tetto un insieme scombinato di tegole di legno e per pareti dei tronchi mezzi marci per i decenni di pioggia. Uscì a passo veloce e prese per il sentiero che passava dietro al negozio della Mirella.
- Ciao Ettore. – gli disse lei riportando in casa la bandiera rossa che suo marito Emiliano, come Zapata se non lo avevate capito, aveva inastato vicino alla porta appena era caduto il Duce. Meglio metterla via, eh sì.
- Ciao Mirella; spero di rivederla presto. – ma non è che ci sperasse poi ‘sto gran che, pensava che almeno un paio di stagioni le avrebbe dovute passare lontane dal paese a soffrire il freddo, la fame e a schivare i proiettili di quei maledetti.
- Speriamo, Ettore. – gli disse e gli mise in mano una caciotta stagionata e una bella forma di pane dalla crosta dura e marrone. Era gentile, cavolo, non è che il cibo abbondasse per nessuno in quel novembre del ’43.
- Grazie Mirella. – le disse abbracciandola con il braccio libero e poi, prima di mettersi a piangere come un bambino, si incamminò lasciandola alla sua opera di rifascistizzazione del negozio.
Girò per la stretta viuzza lastricata con ciottoli del torrente, salutò un paio di contadini che, imperturbabili e impermeabili ai cambiamenti umani come l’arrivo di un esercito invasore, stavano zappettando l’orto intorno ai cavoli tardivi. Poi scavalcò il ponticello a schiena d’asino e si trovò nel bosco. Per un centinaio di metri si andava in piano, poi cominciava la salita. Lì era, se aveva calcolato bene, a 400 metri sul livello del mare, ma la cosiddetta Pianetta era a circa mille e duecento metri. Sarebbe arrivato morto, più o meno.
Aggiustandosi lo zaino che gli stava segando una spalla e cominciando a pensare se fosse il caso di tagliarsi già una bella fetta di caciotta per sbafarsela in mezzo a due fettone di pane, vide qualcuno davanti a sé. Miriam, la ragazza torinese. Lui era lì per scelta, per combattere per il Bene, come amava pensare vergognandosi subito per l’ingenuità di una frase così infantile, ma lei era lì per salvarsi la pelle. Miriam Levi non era un nome bello da portare in un’Italia occupata dai nazisti, o almeno non lo era se non volevi vincere un viaggio premio verso i famigerati Campi di cui si vociferava a mezza voce da un po’ stupendosi delle enormità che sembravano avvenire là tra Germania e Polonia.
- A bella! – le disse raggiungendola e notando come la poverina, un metro e cinquantotto con le scarpe e quarantasei chili con i vestiti invernali addosso, oscillasse sotto al peso del suo zaino e del sacco che portava passandolo continuamente da una mano all’altra.
- Ettore! – gli disse lei fermandosi e sorridendo. Bella non era, non tanto almeno da notarla per prima se avesse girato per strada insieme a un gruppo di amiche, ma quando sorrideva ti apriva il cuore. – Pensavo di essere l’ultima. –
- Ero su col Bartolo a caricare il povero Adolf, li ho visti io gli stronzi. –
- E quanti sono? –
Una pietosa bugia? O la crudele realtà? Sempre meglio la realtà, almeno poi non si rimane delusi dopo. – Tanti Miriam, un’ottantina almeno, con camion, fuoristrada e moto col sidecar. –
Il bel sorriso della ragazza si spense e le sue sopracciglia si piegarono all’ingiù come quelle di un cocker. Un’ottantina di persone che non vedevano l’ora di accopparti non erano certo una bella cosina da sentirsi annunciare. Doveva distrarla, cavolo, che cavaliere del belino sarebbe stato se no? – Dammi un po’ quel sacco e prendi questo pane e ‘sta caciotta. – le disse.
Lei obbedì e lo guardò mentre camminavano su per la salita. Aspettava altre indicazioni? – Nella tasca della mia giacca, la tasca destra, attenta che taglia. –
Lei gli infilò la mano in tasca e tirò fuori il suo coltello dalla lama intaccata. – Due belle fette di pane e un bel po’ di formaggio, se non le dispiace, Madama. –
Lei riuscì a fare tutto continuando a camminare e, strano a dirsi, non fece nemmeno cadere nulla a terra, e, dopo avergli dato il panino, si servì a sua volta. Continuarono a salire in silenzio, mangiando quella meraviglia di merenda che forse era così buona solo perché condita col miglior condimento dai tempi dell’antica Sparta, la fame. Poi, quando ormai erano all’altezza del colle su cui fianco meridionale sorgeva il paesetto dove avevano vissuto fino ad allora, a nemmeno un terzo della salita quindi, lei volle riprendersi il suo sacco e cominciarono a camminare l’uno di fianco all’altro, in silenzio, presi dai loro tristi pensieri. Era guerra ormai, la tregua era solo un ricordo che sbiadiva sempre di più.

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