domenica 3 maggio 2015

Berserker. 6

Con questo capitoletto finisce il primo capitolo del possibile romanzo. Da qui in poi l'azione dovrebbe spostarsi in altro luogo e anche in altro tempo, ma è ancora tutto da scrivere. Comunque, ecco la fine del primo capitolo, buona lettura!

Lo portarono in una stanza vicino alla baracca del comandante e gli lasciarono fare una doccia. Acqua calda, sapone, un asciugamano. Si lavò e per un po’ riuscì quasi a dimenticarsi il dolore allo zigomo. Per un breve attimo gli sembrò di essere di nuovo un uomo. Si asciugò e questi gesti così normali, così borghesi, gli fecero notare cosa era diventato il suo corpo. Era uno scheletro pallido, con la pancia un po’ gonfia perché si può dimagrire quanto si vuole, ma l’intestino non cambia il suo volume. Persino i piedi erano rinsecchiti, oltre che ricoperti da piaghe per il contatto con quegli orrendi sandali di legno.
Si rivestì con degli abiti che gli avevano lasciato lì, abiti di altre persone che adesso erano nel campo, o in pigiama o sotto forma di cenere grigia. Si vestì con cura, scegliendo i vestiti che gli stavano meglio. Alla fine sembrava quasi un uomo normale, magari un uomo che i dottori stanno per mandare in un sanatorio sulle montagne come accadeva anni prima.
Uscì dalla baracca e vide i due SS e l’ufficiale della Wermacht; i due non lo guardarono neanche, l’ufficiale invece gli fece un cenno col capo e poi tornò ad avere la stessa espressione stravolta di prima. Il suo spettacolino con quegli oggetti lo aveva scioccato più del Campo di concentramento, ma ora l’ambiente mortifero che li circondava sembrava stare facendo di nuovo presa su di lui.
- Vieni, giudeo! – disse l’SS alto e lo precedette verso la macchina. Era stato nel ’41 che era andato in auto per l’ultima volta, in taxi a trovare sua madre. Era morta nel ’42, glielo avevano fatto sapere in qualche modo dei conoscenti.
Salì in macchina dietro, vicino all’ufficiale che sembrava più vecchio di dieci anni rispetto a quando era entrato. Partirono ed arrivarono al cancello, lo varcarono e lesse la scritta in ferro battuto che lo sovrastava. “Il lavoro rende liberi” diceva.
In effetti il suo lavoro lo stava rendendo libero, da internato era diventato adesso un importante collaboratore per una missione segreta. A segnalare il suo essere ebreo c’era solo una fascia sul braccio con la stella a sei punte. Respirò a pieni polmoni allontanandosi dal Campo, notando che l’odore di centomila persone moribonde riunite insieme in pochi chilometri quadri era molto simile a quello dell’allevamento di maiali che stava anni prima vicino alla casa di suo nonno. In effetti era quello che facevano in quel posto, trasformavano uomini in animali e poi quegli animali li macellavano. Era per rendere le cose più semplici ai macellatori, una intera vita civile avrebbe reso loro difficile la macellazione di esseri umani, ma di animali …
E come un animale aveva vissuto per due anni, cercando cibo nei rifiuti, sopportando, anzi no, ignorando le botte, sorvolando sulla morte della sua famiglia come una gatta non piange i suoi micini ammazzati da un’inondazione.
Allontanandosi dal Lager assaporò l’umanità insita nella sua nuova situazione e tremò al pensiero di quando, leniti i dolori e la fame, il dolore per quanto accaduto lo avrebbe investito con tutta l’enormità del suo orrore. E fu allora, mentre il fuoristrada si allontanava così tanto dal Lager da essere uscito dall’orbita del suo odore, che ricordò finalmente per bene le visioni che aveva avuto toccando quegli oggetti.
Le prime due visioni erano state una cosa mai provata, era diventato davvero un’altra persona, aveva smesso di essere sé stesso ed era stato altro, ma l’ultima … quello che era entrato in lui era … quello era perdere la propria umanità, quello era diventare un animale. E verso quello lo stavano portando i suoi nuovi “compagni”. Si girò indietro a guardare quella sterminata pianura e, per quanto sembri impossibile, pianse all’idea di allontanarsi da quel luogo di morte. Quello verso cui stava andando era, semplicemente, peggiore.

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