sabato 18 maggio 2013

LA CASA SULLA COLLINA. XLI.

7

Filippo.

Si rese conto tutto a un tratto di essere coricato in un letto, il materasso era morbido e le coperte erano gradevolmente calde. Per qualche brevissimo istante seppe solo quello, e si godette quella sensazione di pace incredibile che molto probabilmente aveva provato l’ultima volta solo nel grembo di sua madre.
Dopo quella sensazione arrivarono i primi pensieri, immagini dei sogni, foreste dagli alberi altissimi, animali mai visti, lo spazio percorso da astronavi enormi, stanze grandi come città puntellate da milioni di capsule che sembravano da lontano delle pillole azzurre con dentro qualcosa, e, in sottofondo, come una sensazione di paura, di oppressione, quella sensazione che si ha nei sogni di tentare di fuggire e di rimanere invece sempre lì, fermi e impossibilitati a fuggire. Questa paura lo svegliò e i sogni svanirono dalla sua mente come gli aloni di fiato condensato su cui da piccolo scriveva col dito “ciao” per vederlo ritornare alla trasparenza del vetro.
Aprì gli occhi e si trovò nella stanza in cui aveva dormito, una stanza in una base aliena sulla luna, incredibile pensò sorridendo, poi si mosse assaporando il tepore di quelle coperte morbidissime, si raggomitolò come un bimbo e tentò di riafferrare i fili di quei ricordi e di quei sogni, riuscendo appena a visualizzare come delle ombre di colori e pensieri che quasi sotto ai suoi occhi si dileguavano. La paura che lo aveva svegliato si era dissolta anche lei e ora sentiva un benessere che lo stupì, perché lui non era una persona che si sentisse mai troppo bene.
Si rigirò sull’altro fianco con un sorriso ebete stampato sulla faccia, rendendosi conto che solo il giorno prima quel fatto di essere tra degli alieni che erano i soci della sua famiglia da almeno una quarantina d’anni gli era sembrato un qualcosa di orrendo, sbagliato, stridente con tutto quello che vi era di giusto e ben fatto a questo mondo, mentre ora, dopo un buon sonno, da quanto non dormiva così bene, cazzo, tutto era andato a incasellarsi al suo posto e capiva il perché del comportamento di suo padre e di Ettore.
Si alzò stiracchiandosi come un bimbo, un accenno di erezione a indicare quanto fosse soddisfatto e si sentisse bene, andò in bagno e svuotò la vescica fischiettando Obladì Obladà dei Beatles senza riuscire una nota che fosse una, pieno di gioia infantile e di voglia di fare. Si fece una doccia e si vestì col suo completo uscendo dalla stanza e ritrovandosi nei corridoi di quella base che il giorno prima gli era sembrata assomigliare a … cosa?
- Signor Malerba? – ripensò nella sua testa l’alieno che gli arrivava sì e no allo sterno. Doveva essere alto come il suo buon vecchio Kevin quando si metteva in piedi, l’alienuccio.
- Cosa c’è, signor … - gli chiese rendendosi conto che non aveva la minima idea di come dovesse rivolgersi a quel coso e ai suoi simili.
- Mi può chiamare Kevin, se vuole, signor Malerba. – gli pensò il cosetto sorridendo con la sua boccuccia.
- Come? –
- Scusi, ho letto i suoi pensieri. Noi non abbiamo nomi, ma dato che lei ha pensato che assomigliassi in qualche modo a questo Kevin, può chiamarmi così. –
Filippo fece un sorriso imbarazzato e disse: - La chiamerò signor G., se le va bene. –
- Ottimo. – pensò servizievole l’alieno e poi lo condusse per i corridoi fino a una sala mensa che sembrava un ristorante di lusso. Ettore lo aspettava lì. Si sedette accanto al suo anziano collega e parlarono di quei progetti che aveva già visto il giorno prima nel suo ufficio affacciato sul mare e li trovò incredibilmente buoni. Avrebbero portato un sacco di soldi, un sacco davvero, e avrebbero funzionato bene. Firmò nei punti che Ettore gli indicò con le sue dita da pianista, e poi parlarono del più e del meno, come se non si fossero trovati in un posto che fino al giorno prima per lui non esisteva e quegli ultimi rimasugli dei sogni della notte e della inquietudine che lo avevano svegliato sparirono del tutto.

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