martedì 19 aprile 2016

Il mio amico torrente.

Il mio amico Polcevera.

Prima di tutto … Polcèvera, non Polcevèra. Vi prego, non sfregiatene anche il nome.
Scorre da monte al mare, ha una grande vallata col suo nome, è entrato varie volte nella storia, ma non è un fiume, è un torrente.
Nel secondo secolo avanti Cristo i Romani lo citarono in una lunga iscrizione, come confine tra due tribù tra cui mediavano, anche se allora lo chiamavano “Porcobera”.
Poi ha debellato un’invasione francese, se non sbaglio, nel diciassettesimo secolo, perché chi comandava l’armata di Mangiarane fu così furbo da accamparsi sul greto asciutto per la siccità, piovve e Genova fu salva. Ricordiamo Giobatta Perasso per una sassata e non parliamo mai del nostro “fiume”; mah! I Giapponesi su una cosa simile, il Vento Divino, c’hanno inventato i kamikaze.
E poi … io l’ho visto in piena, il mio torrente, color caffelatte e gorgogliante come le rapide del Colorado, l’ho visto in secca con le piante assetate nel suo greto, c’ho portato a giocare il mio cane venti e passa anni fa, quando ancora la strada sul lungo torrente non lo aveva separato in maniera totale dalla strada.
E poi, ancora … ci ho visto germani reali, aironi, aironi cinerini, oche, cinghiali, capre, tutti insieme a mangiare erbe e alghe, l’ho passato sui ponti d’inverno quando il vento ti fa gelare e d’estate quando la brezza ti rinfresca in maniera divina.
Ho visto come lo hanno ridotto nei secoli, il torrente su cui i Bizantini riuscirono a portare, controcorrente, un’intera flotta per combattere contro i Goti, ho visto quegli sbarramenti che lo hanno reso un susseguirsi di laghetti o pozze le cui acque si riversano giù da piccole dighe quando non affogano tra la sabbia e i sassi, ho visto gli argini, i benedetti argini che hanno reso salubre e abitabile il fondovalle in cui sono nato e vivo, stringere il suo letto pazzerello, si spostò una volta da un lato all’altro di Bolzaneto, in una sorta di camicia di forza di pietre e cemento.
E oggi sono andato a vederlo dopo lo sversamento di petrolio.
Sembrava brodo di pollo, di quello fatto lasciando la pelle, che il grasso si fonde e viene a galla; sembrava la padella del fritto, quando dopo aver fritto e aver messo l’olio usato in una bottiglia per darlo alla differenziata, ci faccio bollire dell’acqua e sapone per pulirla, e l’acqua viene brutta e torbida e macchiata come se avesse la psoriasi. Sembrava una pozzanghera di quelle che c’è andato dell’olio di macchina, con quegli aloni multicolori e opalescenti. L’ho guardato a lungo, il mio torrente, il mio amico, mentre scorreva verso il mare ricoperto da quello strato schifoso di olio che mi ha fatto venire il mal di testa, tra la sabbia sporca di chiazze nere e il fondale da cui si staccavano le alghe marroni. E non li ho visti i pesci, quelli che un paio di mesi fa, quando era piovuto un bel po’ e c’era tanta acqua profonda, si muovevano nelle acque del torrente come i banchi di sardine nell’oceano, non li ho visti, perché non c’erano più.
E io lo so che il mio amico torrente, il mio amico Polcevera, si riprenderà come tutti i fiumi sanno fare, lo so che i pesci torneranno e le canne cresceranno rigogliose sulla sabbia di nuovo pulita, lo so che i germani reali nuoteranno di nuovo nell’acqua pulita seguiti da una fila pigolante di anatroccoli gialli, lo so e lo spero, ma oggi il mio torrente, il mio amico, sembrava morto. E anche il mio cuore si è fermato con lui.

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