giovedì 5 settembre 2024

Zombie stellari. Episodio I.

Allora, una premessa. Sono un fedele di Star Wars, adoro Star Wars, la trilogia originale è la mia Bibbia, la trilogia Prequel è il mio vangelo, la trilogia Sequel ... no, non sono un eretico.

Ma non mi fermo ai film, mi piacciono le serie Star Wars, tutte, persino The Book of Boba Fett, ma le mie preferite sono le serie animate. The Bad Batch, Rebels (Kanan e Ezra!), Tales of the Jedi/the Empire e, soprattutto The Clone Wars, che ritengo un capolavoro. Mi piacciono i cloni, Rex, Cody, Jessie, Fives, Echo, Gregor, Wolfe e tutti gli altri, persino Clone 99.

E quindi, mi è piaciuto scrivere una storiella horror, sempre lì torno, con protagonista un clone. Però sono anche un uomo, con i miei istinti, e molti di quei miei naturali istinti si sono svegliati la prima volta, del tutto inconsapevolmente, vedendo la ballerina dalla pelle blu e dai tentacoli in testa, ora so che era una Twi'lek, che, povera sventurata, si esibiva per Jabba The Hut, ricoperta da forse un terzo di centimetro quadrato di stoffa. Diciamo che il mio ideale di donna, da allora, è blu e con la testa a seppia. Tutta colpa di George Lucas! E, quindi, nel mio racconto horror il clone è insieme a una bella Jedi Twi'lek, blu, e i due non combattono solo, ma si innamorano.

E perciò, cari lettori, eccovi la prima parte, di 4 direi, di una storia che non è altro che una (oddio!) fanfiction, ma che ho trovato estremamente divertente scrivere.

Spero che voi vi divertiate allo stesso modo a leggerla. 


Zombie Stellari


Il termometro dell’elmo gli diceva che c’erano 48 gradi. Sembravano 60. Era ormai un chilometro che aveva smesso di tentare di farla camminare, cadeva ogni tre passi e rimetterla in piedi era uno sforzo eccessivo nelle sue condizioni; la teneva in braccio e continuava a camminare fissando le colline all’orizzonte, verdi, meravigliosamente verdi rispetto a quella pietraia assolata in cui arrancava portando in braccio il suo generale. Era calda, troppo calda, e teneva la testa abbandonata, con i lekku che gli battevano contro la gamba, l’ultima volta che l’aveva fatta bere, con l’ultima acqua nella borraccia, aveva deglutito con un’enorme fatica. La sua pelle blu si stava arrossando per le ustioni, era violacea in maniera sempre più preoccupante, se non avesse trovato un modo per raffreddarla e idratarla sarebbe morta in poco tempo. E lui sarebbe morto poco dopo, naturalmente.

Superò una piccola cresta e, scendendo per la ripida pietraia scivolò. Riuscì a non farla cadere, ma lei non reagì. Le piantò due dita ai lati della clavicola, lei gemette. Era ancora viva e non era in coma. Stava solo morendo per il troppo calore, le labbra screpolate fino a sanguinare, gli occhi ribaltati mostrando la sclera. Si rialzò a fatica e vide quella che doveva essere una piccola oasi, in una conca naturale, degli alberi, dell’erba e, assurdamente, un laghetto che rifletteva l’azzurro del cielo. I due soli e le tre lune non si riflettevano in quella minuscola goccia d’acqua persa nel calore letale. Sicuro che fosse un miraggio, doveva essere un miraggio, si rimise in piedi e camminò verso gli alberi verdi e folti accompagnato dal suono dei lekku che gli picchiavano ritmicamente sulla placca metallica bianca che gli copriva la coscia.

Ormai in preda a una specie di delirio da caldo, gli sembrava di camminare tra due file di suoi fratelli morti nell’ultima battaglia, arrivò agli alberi. Erano davvero alberi. Posò a terra il generale nel punto più ombroso e fresco e corse al laghetto. Era un laghetto, di acqua freschissima, strani animali simili a tritoni nuotavano sul fondo. Bevve, deglutì, bevve di nuovo. Pianse. Andò a prendere il generale e la posò sulla riva, le versò dell’acqua in bocca, ma non riusciva a bere. Le bagnò le braccia, il viso, i lekku. Era calda come non pensava si potesse essere senza morire.

Si guardò intorno. Una piccola casa di tronchi, roba che aveva visto in un quadro raffigurante la preistoria, roba di forse 35.000 anni fa. Entrò, era vuota. C’erano viveri in vasi di vetro, bottiglie. C’era un letto. L’aria era fresca, lì. Corse a prendere il generale, la adagiò su uno dei letti e gli parve che l’aria fresca la facesse sembrare già più viva. Aprì una bottiglia, era un liquore molto forte, proprio come aveva sperato, riempì una scodella d’acqua e vi versò il liquore, l’alcool evapora a temperature bassissime. Le tolse stivali, pantaloni, giacca. Con uno straccio imbevuto nella bacinella le bagnò le gambe, le braccia, l’addome, il viso e i lekku. Il liquido evaporava come gocce di pioggia sulla strada in estate, ma a ogni passaggio dello straccio gli pareva che lei respirasse con meno fatica. Continuò a bagnarla per molto tempo, poi, finito il liquido, la lasciò a riposare con il panno umido poggiato sulla fronte. Stava dormendo, adesso. Prima di uscire le portò alle labbra un bicchiere pieno di acqua freschissima e lei, senza svegliarsi, la bevve avidamente.

Per ora lui non poteva fare altro. Uscì fuori, andò al laghetto, pressoché circolare, era largo una cinquantina di metri, l’ombra degli alberi ora lo faceva sembrare ancora più fresco. Si spogliò ed entrò in acqua. L’ultima volta aveva nuotato quattro anni prima nelle acque di Kamino, in una delle rarissime giornate in cui non erano agitate. Erano in trenta, quel giorno, ben otto di quei trenta erano morti poche ore prima. Nuotò in quell’acqua fresca sotto agli alberi, tentando di dimenticare il dolore.

Uscì dall’acqua rinfrescato, rinfrancato, totalmente esausto. Si infilò la tuta che portava sotto all’armatura, ripose l’armatura sotto a uno dei letti della casetta e vi si coricò dopo aver controllato il generale e averle lasciato accanto al letto un bicchiere pieno d’acqua. Dormiva, e la sua pelle era fresca al tatto. Si addormentò e dormì un sonno misericordiosamente privo di sogni.

 

La mattina si svegliò dolorante e affamato, ma inaspettatamente vivo, dopo il disastro della giornata precedente. Il generale dormiva, il respiro non più affannato come il giorno prima, la sua pelle era fresca, per quanto ustionata dove il sole l’aveva rosolata durante la lunga traversata del deserto. Le portò alle labbra l’acqua e, di nuovo, lei bevve senza nemmeno svegliarsi. Le tolse la fasciatura che le aveva fatto il giorno prima sulla gamba, la ferita non sembrava essersi infettata. Dal suo zaino tirò fuori la cassetta del primo soccorso, le lavò con cura la ferita, la disinfettò e la coprì accuratamente con la benda cicatrizzante. Non avendo a disposizione una vasca di bacta si sarebbero dovuti accontentare di quella roba antiquata. Si disinfettò le poche ferite superficiali e uscì nell’aria fresca della mattina, sotto l’ombra degli alberi. Non resistette alla tentazione e fece una nuova nuotata nel laghetto, astraendosi totalmente dal dolore e dalla tristezza.

L’unico modo per cucinare qualcosa in quel posto, incredibilmente, era accendere un fuoco. Prese la spada del generale e andò a tagliare un po’ di legna, tornò in casa e accese il fuoco con un colpo di blaster. Il rumore fece sobbalzare il generale che però, ancora debole ed estenuata dalle ferite, dall’insolazione e dalla disidratazione, si voltò solo su un fianco. Bene, non aveva mai visto nessun moribondo dormire su un fianco.

Scaldò una razione di pane e vi spalmò la confettura di meiloorun, riempì un bicchiere di latte di bantha e lo insaporì con una polvere di colore marrone e dall’aroma forte che aveva trovato su una mensola nella capanna. Ottimo.

Controllò il generale, era fresca, la ferita era in ottime condizioni, dormiva russando lievemente. La coprì con una coperta, le lasciò un messaggio scritto su un foglio, mai avrebbe pensato che gli sarebbe servito quello che gli avevano insegnato in accademia sugli antichi sistemi di comunicazione pretecnologici, le infilò la spada laser sotto al cuscino e, chiusa la porta, uscì sentendo l’aria che cominciava a scaldarsi. Il comunicatore non riceveva alcun segnale, né a breve né a lungo raggio, ma a un paio di chilometri c’era un’altura da cui avrebbe potuto vedere cosa ci fosse nei dintorni. Indossò la sua armatura e, riempita la borraccia, parti di buon passo. Il deserto finiva a forse mezza giornata di cammino, un fiume e dei boschi lo costeggiavano a nord. E c’erano delle case, anche se non vedeva né astronavi né speeder. Però c’erano dei fili di fumo che salivano dai camini.

Tornò indietro ed entrò nella capanna. Fu gettato a terra e si trovò la punta della spada laser davanti agli occhi. Il generale era in piedi su di lui, nuda. Sembrava stare bene.

«Sono CC-9762, Generale.» disse e si tolse l’elmo. Lei lo guardò e spense la spada. «Lucky Boy.» disse «Non siamo sul guscio di salvataggio.»

«No, signora. Siamo atterrati molto male.»

«Gli altri?»

«Morti.»

Gli diede la mano e lo aiutò ad alzarsi. Prese la coperta e se la avvolse addosso sedendosi sul letto, era così debole che tremava. «Sono ferita? Perché la gamba non mi sembra così grave.»

«Abbiamo camminato sotto al sole per ore, stava morendo a un certo punto.»

Gli sorrise, «Grazie, Lucky Boy. Ti devo la vita. Hai contattato la flotta?»

Lui le passò il comunicatore, lei provò vari canali. «Niente? Nemmeno fuori?»

«Città nelle vicinanze?»

«Un villaggio a mezza giornata di cammino, a nord. Niente spazioporto e non ho visto antenne.»

La twi’lek tremò, parve avere un capogiro e si coricò sul letto. «Mi puoi portare dell’acqua?»

Lui le riempì una tazza di un materiale che gli sembrava si chiamasse terracotta, se ricordava bene un libro di storia studiato su Kamino, gliela diede e lei, alzatasi a fatica su un gomito, bevve a piccoli sorsi. Gli restituì la tazza con un’espressione un po’ meno sofferente. «Da quanto siamo qui?»

«Oggi sono tre rotazioni.»

«Hai riconosciuto delle costellazioni in cielo?»

«Non signora, nessuna. Siamo in una parte di Galassia he non riconosco.»

«Quindi, se mi ricordo bene, l’astronave è esplosa nell’iperspazio, i gusci di salvataggio si sono dispersi a caso su anni luce di distanza e noi siamo precipitati qua senza contatti né a breve né a lungo raggio.»

«Esatto, signora.»

«E siamo soli.»

«Sì, signor generale.»

«Puoi smettere di chiamarmi generale o signora, Lucky Boy?»

«Come vuole, signor ge…»

«Kayla, soltanto Kayla.» si raggomitolò nella coperta, gli sorrise e chiese: «C’è qualcosa da mangiare?»

Lui si alzò e disse: «Le preparo subito qualcosa, signor … Kayla. Possiamo fare un’ottima colazione.» Le servì quello che aveva mangiato lui e lei lo gradì molto. Finito di mangiare si alzò e andò a vedere fuori dalla finestra, appoggiandosi al muro solo un paio di volte. Oltre al prato verde, al lago e agli alberi, un deserto sassoso e privo di vita a perdita d’occhio, sotto al cielo dal colore violaceo. Lui guardò la sua silhouette che si stagliava nel riquadro della porta, non poté fare a meno di ricordare la sua prima visita al bordello quasi ufficiale del Grande Esercito Repubblicano, la sua prima volta era stata con una twi’lek, dalla pelle rossa. Il generale era più bella. Era noto che il senso del pudore dei twi’lek era alquanto particolare, se non quasi inesistente.

«C’è un bagno?» gli chiese.

«C’è una porta là a destra, è un po’ antiquato, ma abbastanza pulito.»

Lei andò in bagno e lui uscì a tagliare un po’ di legna. Le sarebbe servita, quando lui fosse partito per arrivare al villaggio, perché di certo non avrebbe potuto aspettare che lei fosse abbastanza in forze per arrivare fino là.

Lei uscì con la coperta sulle spalle, stretta in vita da una corda, sembrava un abito da sera. «Devi andare al villaggio per chiamare la flotta, io non ce la faccio a seguirti.»

«Stavo pensando la stessa cosa, generale.»

«Kayla.»

«Kayla.» se la chiamava generale faceva meno fatica a non notare quelle lunghe gambe e il seno pieno. «Partirò al tramonto, il sole è troppo forte per una camminata così lunga.»

«Giusto, Lucky Boy.» disse lei appoggiandogli una mano sulla spalla. Vieni dentro e facciamo l’inventario di cosa abbiamo, io mi devo sedere sul letto.

Alla fine, risultò che avevano molto, oppure pochissimo. Dipendeva dal tempo che ci sarebbe voluto a chiamare i soccorsi e quanto tempo questi ci avrebbero messo ad arrivare.

In una dispensa sotto al pavimento lui trovò delle salsicce stagionate e degli strani legumi secchi, in qualche modo imbastì un pasto e mangiarono all’ombra di un albero. Kayla sembrava rifiorire di minuto in minuto, probabilmente aiutata dalla Forza. Anche lui stava meglio, aiutato dall’addestramento.

Come aveva immaginato, al tramonto dei soli, le tre lune erano ancora in alto nel cielo, illuminando in maniera più che soddisfacente l’ambiente. Infilatasi l’armatura uscì per mettersi in cammino, avrebbe dovuto arrivare al villaggio poco dopo l’alba. Lei lo accompagnò fuori dal cerchio degli alberi, guardò il cielo e, con evidente frustrazione, disse che nemmeno lei riconosceva alcuna costellazione.

Lui si infilò l’elmo e disse: «Generale. Io dovrei tornare prima di domani sera, o forse nelle prime ore della notte.»

Lei gli sorrise, poi sembrò avere un brivido e portò la mano alla spada laser che portava al cinturone. «Stai attento, Lucky Boy, non è tutto innocuo qua intorno.»

«Sì, generale.»

«Kayla.»

Lui rise e si allontanò a passo veloce e regolare nella notte. Lei guardò la figura bianca diventare sempre più piccola e indefinita, fino a diventare un’ombra tra le altre. No, non tutto era innocuo, lì. Lo sentiva fin dentro le ossa, e la sensazione peggiorava. Rientrò nella capanna e chiuse bene la porta. Qualcosa era in agguato in quel deserto e lei e Lucky Boy separati erano molto più vulnerabili.

 

Arrivò alla collina in una ventina di minuti, dall’alto controllò il villaggio. Luce alle finestre, non elettrica. Nessuno speeder, niente antenne. Il suo visore non mostrava alcun campo magnetico e nessuna onda radio. Nemmeno droidi, niente. Secondo il visore era a 21 km, in lieve discesa, la temperatura era 15 gradi, in discesa. Si avviò a passo cadenzato, canticchiando una canzone col ritmo giusto, una vecchia canzone che in caserma avevano riscritto con un testo sul conte Dooku e il generale Grievous che giocavano con le spade laser, e con quel passo avrebbe dovuto metterci non più di tre ore e mezza.

La cosa migliore durante lunghe marce in solitaria era permettere al cervello di andarsene un po’ per i fatti suoi, mentre la canzone scelta cantilenava nella mente dando un ritmo appropriato alle gambe. E così, marciando in quel deserto pietroso che, chilometro dopo chilometro, cominciava a mostrare sempre più frequentemente stentati cespugli spinosi, la sua mente passava dalle grevi strofe sui due terribili nemici, ai suoi fratelli morti nell’esplosione due gironi prima, al generale, sola in quella capanna e non perfettamente in grado di difendersi da quel qualcosa che aveva detto essere in agguato intorno a loro, alle ombre che, con la coda dell’occhio, gli sembrava di veder muoversi tra le pietre e i cespugli. Non era sicuro di aver fatto bene a lasciare Kayla da sola, e non era sicuro di aver fatto bene ad andare a camminare da solo nel deserto nel pieno della notte.

 

Accese un fuoco nel camino stupendosi di quanto potesse essere rilassante guardare le fiamme che consumavano il legno trasformandolo in carbone fratturato e infine in cenere. L’aria profumava di fumo e resina e il calore davanti al camino era davvero gradevole. Nell’ultima ora aveva bevuto forse due brocche d’acqua e cominciava a sentirsi meglio, anche la pelle, a parte le spellature superficiali, stava guarendo bene. La ferita alla coscia era ormai ridotta a una sottile crosta tra due lembi di pelle azzurrina tesa, diede ancora un po’ di crema cicatrizzante presa dallo zaino di Lucky Boy e passeggiò avanti e indietro per la stanza. I piedi nudi sul pavimento di legno la ricollegavano alla Forza del pianeta, alla vita che la circondava. Si lanciò a terra atterrando sulle mani e fece dieci flessioni battendo le mani tra una e l’altra, le forze le stavano finalmente tornando. Bevve ancora e si inginocchiò per meditare, cosa che non faceva da troppo tempo. Lasciò vagare i suoi pensieri fino a spegnerli, passò attraverso il dolore, la paura, la preoccupazione, il desiderio, la sua gratitudine per Lucky Boy, si fece attraversare dai ricordi della traversata del deserto in preda al delirio, lasciò che la sensazione di qualcosa in agguato, vicino a lei e a Lucky Boy là nel deserto buio, la sfiorasse senza farsene invadere e infine, dopo un po’ più tempo del solito, ci furono solo lei, il suo respiro regolare, e la Forza. Nel legno che formava la capanna c’erano dei tarli che vivevano le loro piccole vite, negli alberi intorno a lei migliaia di insetti riposavano o mangiavano foglie, in un nido a poche decine di metri da lei quattro piccoli esseri simili ad uccelli dormivano coperti dal corpo della madre, colmi di amore e riconoscenza. La Forza era in tutti loro, anche nelle lucertole che camminavano sulla sabbia che si raffreddava velocemente, e la Forza era anche nelle cose in agguato, ora più vicine, il Lato Oscuro della Forza in quel caso.

Evitò di preoccuparsi per un qualcosa che, ancora, non aveva intenzione di attaccarla.

Lasciò che La Forza fluisse attraverso di lei.


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