Allora, una premessa. Sono un fedele di Star Wars, adoro Star Wars, la trilogia originale è la mia Bibbia, la trilogia Prequel è il mio vangelo, la trilogia Sequel ... no, non sono un eretico.
Ma non mi fermo ai film, mi piacciono le serie Star Wars, tutte, persino The Book of Boba Fett, ma le mie preferite sono le serie animate. The Bad Batch, Rebels (Kanan e Ezra!), Tales of the Jedi/the Empire e, soprattutto The Clone Wars, che ritengo un capolavoro. Mi piacciono i cloni, Rex, Cody, Jessie, Fives, Echo, Gregor, Wolfe e tutti gli altri, persino Clone 99.
E quindi, mi è piaciuto scrivere una storiella horror, sempre lì torno, con protagonista un clone. Però sono anche un uomo, con i miei istinti, e molti di quei miei naturali istinti si sono svegliati la prima volta, del tutto inconsapevolmente, vedendo la ballerina dalla pelle blu e dai tentacoli in testa, ora so che era una Twi'lek, che, povera sventurata, si esibiva per Jabba The Hut, ricoperta da forse un terzo di centimetro quadrato di stoffa. Diciamo che il mio ideale di donna, da allora, è blu e con la testa a seppia. Tutta colpa di George Lucas! E, quindi, nel mio racconto horror il clone è insieme a una bella Jedi Twi'lek, blu, e i due non combattono solo, ma si innamorano.
E perciò, cari lettori, eccovi la prima parte, di 4 direi, di una storia che non è altro che una (oddio!) fanfiction, ma che ho trovato estremamente divertente scrivere.
Spero che voi vi divertiate allo stesso modo a leggerla.
Zombie Stellari
Il termometro dell’elmo gli diceva che
c’erano 48 gradi. Sembravano 60. Era ormai un chilometro che aveva smesso di
tentare di farla camminare, cadeva ogni tre passi e rimetterla in piedi era uno
sforzo eccessivo nelle sue condizioni; la teneva in braccio e continuava a
camminare fissando le colline all’orizzonte, verdi, meravigliosamente verdi
rispetto a quella pietraia assolata in cui arrancava portando in braccio il suo
generale. Era calda, troppo calda, e teneva la testa abbandonata, con i lekku
che gli battevano contro la gamba, l’ultima volta che l’aveva fatta bere, con
l’ultima acqua nella borraccia, aveva deglutito con un’enorme fatica. La sua
pelle blu si stava arrossando per le ustioni, era violacea in maniera sempre
più preoccupante, se non avesse trovato un modo per raffreddarla e idratarla
sarebbe morta in poco tempo. E lui sarebbe morto poco dopo, naturalmente.
Superò una piccola cresta e, scendendo per
la ripida pietraia scivolò. Riuscì a non farla cadere, ma lei non reagì. Le
piantò due dita ai lati della clavicola, lei gemette. Era ancora viva e non era
in coma. Stava solo morendo per il troppo calore, le labbra screpolate fino a
sanguinare, gli occhi ribaltati mostrando la sclera. Si rialzò a fatica e vide quella
che doveva essere una piccola oasi, in una conca naturale, degli alberi,
dell’erba e, assurdamente, un laghetto che rifletteva l’azzurro del cielo. I
due soli e le tre lune non si riflettevano in quella minuscola goccia d’acqua
persa nel calore letale. Sicuro che fosse un miraggio, doveva essere un
miraggio, si rimise in piedi e camminò verso gli alberi verdi e folti
accompagnato dal suono dei lekku che gli picchiavano ritmicamente sulla placca
metallica bianca che gli copriva la coscia.
Ormai in preda a una specie di delirio da
caldo, gli sembrava di camminare tra due file di suoi fratelli morti
nell’ultima battaglia, arrivò agli alberi. Erano davvero alberi. Posò a terra
il generale nel punto più ombroso e fresco e corse al laghetto. Era un
laghetto, di acqua freschissima, strani animali simili a tritoni nuotavano sul
fondo. Bevve, deglutì, bevve di nuovo. Pianse. Andò a prendere il generale e la
posò sulla riva, le versò dell’acqua in bocca, ma non riusciva a bere. Le bagnò
le braccia, il viso, i lekku. Era calda come non pensava si potesse essere
senza morire.
Si guardò intorno. Una piccola casa di
tronchi, roba che aveva visto in un quadro raffigurante la preistoria, roba di
forse 35.000 anni fa. Entrò, era vuota. C’erano viveri in vasi di vetro,
bottiglie. C’era un letto. L’aria era fresca, lì. Corse a prendere il generale,
la adagiò su uno dei letti e gli parve che l’aria fresca la facesse sembrare
già più viva. Aprì una bottiglia, era un liquore molto forte, proprio come
aveva sperato, riempì una scodella d’acqua e vi versò il liquore, l’alcool
evapora a temperature bassissime. Le tolse stivali, pantaloni, giacca. Con uno
straccio imbevuto nella bacinella le bagnò le gambe, le braccia, l’addome, il
viso e i lekku. Il liquido evaporava come gocce di pioggia sulla strada in
estate, ma a ogni passaggio dello straccio gli pareva che lei respirasse con
meno fatica. Continuò a bagnarla per molto tempo, poi, finito il liquido, la
lasciò a riposare con il panno umido poggiato sulla fronte. Stava dormendo,
adesso. Prima di uscire le portò alle labbra un bicchiere pieno di acqua
freschissima e lei, senza svegliarsi, la bevve avidamente.
Per ora lui non poteva fare altro. Uscì
fuori, andò al laghetto, pressoché circolare, era largo una cinquantina di
metri, l’ombra degli alberi ora lo faceva sembrare ancora più fresco. Si
spogliò ed entrò in acqua. L’ultima volta aveva nuotato quattro anni prima
nelle acque di Kamino, in una delle rarissime giornate in cui non erano
agitate. Erano in trenta, quel giorno, ben otto di quei trenta erano morti
poche ore prima. Nuotò in quell’acqua fresca sotto agli alberi, tentando di
dimenticare il dolore.
Uscì dall’acqua rinfrescato, rinfrancato,
totalmente esausto. Si infilò la tuta che portava sotto all’armatura, ripose
l’armatura sotto a uno dei letti della casetta e vi si coricò dopo aver
controllato il generale e averle lasciato accanto al letto un bicchiere pieno
d’acqua. Dormiva, e la sua pelle era fresca al tatto. Si addormentò e dormì un
sonno misericordiosamente privo di sogni.
La mattina si svegliò dolorante e affamato,
ma inaspettatamente vivo, dopo il disastro della giornata precedente. Il
generale dormiva, il respiro non più affannato come il giorno prima, la sua
pelle era fresca, per quanto ustionata dove il sole l’aveva rosolata durante la
lunga traversata del deserto. Le portò alle labbra l’acqua e, di nuovo, lei
bevve senza nemmeno svegliarsi. Le tolse la fasciatura che le aveva fatto il
giorno prima sulla gamba, la ferita non sembrava essersi infettata. Dal suo
zaino tirò fuori la cassetta del primo soccorso, le lavò con cura la ferita, la
disinfettò e la coprì accuratamente con la benda cicatrizzante. Non avendo a
disposizione una vasca di bacta si sarebbero dovuti accontentare di quella roba
antiquata. Si disinfettò le poche ferite superficiali e uscì nell’aria fresca
della mattina, sotto l’ombra degli alberi. Non resistette alla tentazione e
fece una nuova nuotata nel laghetto, astraendosi totalmente dal dolore e dalla
tristezza.
L’unico modo per cucinare qualcosa in quel
posto, incredibilmente, era accendere un fuoco. Prese la spada del generale e
andò a tagliare un po’ di legna, tornò in casa e accese il fuoco con un colpo
di blaster. Il rumore fece sobbalzare il generale che però, ancora debole ed
estenuata dalle ferite, dall’insolazione e dalla disidratazione, si voltò solo
su un fianco. Bene, non aveva mai visto nessun moribondo dormire su un fianco.
Scaldò una razione di pane e vi spalmò la
confettura di meiloorun, riempì un bicchiere di latte di bantha e lo insaporì
con una polvere di colore marrone e dall’aroma forte che aveva trovato su una
mensola nella capanna. Ottimo.
Controllò il generale, era fresca, la
ferita era in ottime condizioni, dormiva russando lievemente. La coprì con una
coperta, le lasciò un messaggio scritto su un foglio, mai avrebbe pensato che
gli sarebbe servito quello che gli avevano insegnato in accademia sugli antichi
sistemi di comunicazione pretecnologici, le infilò la spada laser sotto al
cuscino e, chiusa la porta, uscì sentendo l’aria che cominciava a scaldarsi. Il
comunicatore non riceveva alcun segnale, né a breve né a lungo raggio, ma a un
paio di chilometri c’era un’altura da cui avrebbe potuto vedere cosa ci fosse
nei dintorni. Indossò la sua armatura e, riempita la borraccia, parti di buon
passo. Il deserto finiva a forse mezza giornata di cammino, un fiume e dei
boschi lo costeggiavano a nord. E c’erano delle case, anche se non vedeva né
astronavi né speeder. Però c’erano dei fili di fumo che salivano dai camini.
Tornò indietro ed entrò nella capanna. Fu
gettato a terra e si trovò la punta della spada laser davanti agli occhi. Il
generale era in piedi su di lui, nuda. Sembrava stare bene.
«Sono CC-9762, Generale.» disse e si tolse
l’elmo. Lei lo guardò e spense la spada. «Lucky Boy.» disse «Non siamo sul
guscio di salvataggio.»
«No, signora. Siamo atterrati molto male.»
«Gli altri?»
«Morti.»
Gli diede la mano e lo aiutò ad alzarsi.
Prese la coperta e se la avvolse addosso sedendosi sul letto, era così debole
che tremava. «Sono ferita? Perché la gamba non mi sembra così grave.»
«Abbiamo camminato sotto al sole per ore,
stava morendo a un certo punto.»
Gli sorrise, «Grazie, Lucky Boy. Ti devo la
vita. Hai contattato la flotta?»
Lui le passò il comunicatore, lei provò
vari canali. «Niente? Nemmeno fuori?»
«Città nelle vicinanze?»
«Un villaggio a mezza giornata di cammino,
a nord. Niente spazioporto e non ho visto antenne.»
La twi’lek tremò, parve avere un capogiro e
si coricò sul letto. «Mi puoi portare dell’acqua?»
Lui le riempì una tazza di un materiale che
gli sembrava si chiamasse terracotta, se ricordava bene un libro di storia
studiato su Kamino, gliela diede e lei, alzatasi a fatica su un gomito, bevve a
piccoli sorsi. Gli restituì la tazza con un’espressione un po’ meno sofferente.
«Da quanto siamo qui?»
«Oggi sono tre rotazioni.»
«Hai riconosciuto delle costellazioni in
cielo?»
«Non signora, nessuna. Siamo in una parte
di Galassia he non riconosco.»
«Quindi, se mi ricordo bene, l’astronave è
esplosa nell’iperspazio, i gusci di salvataggio si sono dispersi a caso su anni
luce di distanza e noi siamo precipitati qua senza contatti né a breve né a
lungo raggio.»
«Esatto, signora.»
«E siamo soli.»
«Sì, signor generale.»
«Puoi smettere di chiamarmi generale o
signora, Lucky Boy?»
«Come vuole, signor ge…»
«Kayla, soltanto Kayla.» si raggomitolò
nella coperta, gli sorrise e chiese: «C’è qualcosa da mangiare?»
Lui si alzò e disse: «Le preparo subito
qualcosa, signor … Kayla. Possiamo fare un’ottima colazione.» Le servì quello
che aveva mangiato lui e lei lo gradì molto. Finito di mangiare si alzò e andò
a vedere fuori dalla finestra, appoggiandosi al muro solo un paio di volte.
Oltre al prato verde, al lago e agli alberi, un deserto sassoso e privo di vita
a perdita d’occhio, sotto al cielo dal colore violaceo. Lui guardò la sua
silhouette che si stagliava nel riquadro della porta, non poté fare a meno di
ricordare la sua prima visita al bordello quasi ufficiale del Grande Esercito
Repubblicano, la sua prima volta era stata con una twi’lek, dalla pelle rossa.
Il generale era più bella. Era noto che il senso del pudore dei twi’lek era
alquanto particolare, se non quasi inesistente.
«C’è un bagno?» gli chiese.
«C’è una porta là a destra, è un po’
antiquato, ma abbastanza pulito.»
Lei andò in bagno e lui uscì a tagliare un
po’ di legna. Le sarebbe servita, quando lui fosse partito per arrivare al
villaggio, perché di certo non avrebbe potuto aspettare che lei fosse
abbastanza in forze per arrivare fino là.
Lei uscì con la coperta sulle spalle,
stretta in vita da una corda, sembrava un abito da sera. «Devi andare al
villaggio per chiamare la flotta, io non ce la faccio a seguirti.»
«Stavo pensando la stessa cosa, generale.»
«Kayla.»
«Kayla.» se la chiamava generale faceva
meno fatica a non notare quelle lunghe gambe e il seno pieno. «Partirò al
tramonto, il sole è troppo forte per una camminata così lunga.»
«Giusto, Lucky Boy.» disse lei
appoggiandogli una mano sulla spalla. Vieni dentro e facciamo l’inventario di
cosa abbiamo, io mi devo sedere sul letto.
Alla fine, risultò che avevano molto,
oppure pochissimo. Dipendeva dal tempo che ci sarebbe voluto a chiamare i
soccorsi e quanto tempo questi ci avrebbero messo ad arrivare.
In una dispensa sotto al pavimento lui
trovò delle salsicce stagionate e degli strani legumi secchi, in qualche modo
imbastì un pasto e mangiarono all’ombra di un albero. Kayla sembrava rifiorire
di minuto in minuto, probabilmente aiutata dalla Forza. Anche lui stava meglio,
aiutato dall’addestramento.
Come aveva immaginato, al tramonto dei
soli, le tre lune erano ancora in alto nel cielo, illuminando in maniera più
che soddisfacente l’ambiente. Infilatasi l’armatura uscì per mettersi in
cammino, avrebbe dovuto arrivare al villaggio poco dopo l’alba. Lei lo
accompagnò fuori dal cerchio degli alberi, guardò il cielo e, con evidente
frustrazione, disse che nemmeno lei riconosceva alcuna costellazione.
Lui si infilò l’elmo e disse: «Generale. Io
dovrei tornare prima di domani sera, o forse nelle prime ore della notte.»
Lei gli sorrise, poi sembrò avere un
brivido e portò la mano alla spada laser che portava al cinturone. «Stai
attento, Lucky Boy, non è tutto innocuo qua intorno.»
«Sì, generale.»
«Kayla.»
Lui rise e si allontanò a passo veloce e regolare
nella notte. Lei guardò la figura bianca diventare sempre più piccola e
indefinita, fino a diventare un’ombra tra le altre. No, non tutto era innocuo,
lì. Lo sentiva fin dentro le ossa, e la sensazione peggiorava. Rientrò nella
capanna e chiuse bene la porta. Qualcosa era in agguato in quel deserto e lei e
Lucky Boy separati erano molto più vulnerabili.
Arrivò alla collina in una ventina di
minuti, dall’alto controllò il villaggio. Luce alle finestre, non elettrica.
Nessuno speeder, niente antenne. Il suo visore non mostrava alcun campo magnetico
e nessuna onda radio. Nemmeno droidi, niente. Secondo il visore era a 21 km, in
lieve discesa, la temperatura era 15 gradi, in discesa. Si avviò a passo
cadenzato, canticchiando una canzone col ritmo giusto, una vecchia canzone che
in caserma avevano riscritto con un testo sul conte Dooku e il generale Grievous
che giocavano con le spade laser, e con quel passo avrebbe dovuto metterci non
più di tre ore e mezza.
La cosa migliore durante lunghe marce in
solitaria era permettere al cervello di andarsene un po’ per i fatti suoi,
mentre la canzone scelta cantilenava nella mente dando un ritmo appropriato
alle gambe. E così, marciando in quel deserto pietroso che, chilometro dopo
chilometro, cominciava a mostrare sempre più frequentemente stentati cespugli
spinosi, la sua mente passava dalle grevi strofe sui due terribili nemici, ai
suoi fratelli morti nell’esplosione due gironi prima, al generale, sola in
quella capanna e non perfettamente in grado di difendersi da quel qualcosa che
aveva detto essere in agguato intorno a loro, alle ombre che, con la coda
dell’occhio, gli sembrava di veder muoversi tra le pietre e i cespugli. Non era
sicuro di aver fatto bene a lasciare Kayla da sola, e non era sicuro di aver
fatto bene ad andare a camminare da solo nel deserto nel pieno della notte.
Accese un fuoco nel camino stupendosi di
quanto potesse essere rilassante guardare le fiamme che consumavano il legno
trasformandolo in carbone fratturato e infine in cenere. L’aria profumava di
fumo e resina e il calore davanti al camino era davvero gradevole. Nell’ultima
ora aveva bevuto forse due brocche d’acqua e cominciava a sentirsi meglio,
anche la pelle, a parte le spellature superficiali, stava guarendo bene. La
ferita alla coscia era ormai ridotta a una sottile crosta tra due lembi di
pelle azzurrina tesa, diede ancora un po’ di crema cicatrizzante presa dallo
zaino di Lucky Boy e passeggiò avanti e indietro per la stanza. I piedi nudi
sul pavimento di legno la ricollegavano alla Forza del pianeta, alla vita che
la circondava. Si lanciò a terra atterrando sulle mani e fece dieci flessioni
battendo le mani tra una e l’altra, le forze le stavano finalmente tornando.
Bevve ancora e si inginocchiò per meditare, cosa che non faceva da troppo
tempo. Lasciò vagare i suoi pensieri fino a spegnerli, passò attraverso il
dolore, la paura, la preoccupazione, il desiderio, la sua gratitudine per Lucky
Boy, si fece attraversare dai ricordi della traversata del deserto in preda al
delirio, lasciò che la sensazione di qualcosa in agguato, vicino a lei e a
Lucky Boy là nel deserto buio, la sfiorasse senza farsene invadere e infine,
dopo un po’ più tempo del solito, ci furono solo lei, il suo respiro regolare,
e la Forza. Nel legno che formava la capanna c’erano dei tarli che vivevano le
loro piccole vite, negli alberi intorno a lei migliaia di insetti riposavano o
mangiavano foglie, in un nido a poche decine di metri da lei quattro piccoli
esseri simili ad uccelli dormivano coperti dal corpo della madre, colmi di
amore e riconoscenza. La Forza era in tutti loro, anche nelle lucertole che
camminavano sulla sabbia che si raffreddava velocemente, e la Forza era anche
nelle cose in agguato, ora più vicine, il Lato Oscuro della Forza in quel caso.
Evitò di preoccuparsi per un qualcosa che,
ancora, non aveva intenzione di attaccarla.
Lasciò che La Forza fluisse attraverso di
lei.
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